? Tra…boni e cattivi | Pagina 98

Un Libro sull’isola deserta (bussate e vi sarà aperto)

Ogni tanto torna di moda quel giochetto-domanda: <Se dovessi andare su un’isola deserta potendo portare un solo libro, quale sceglieresti?>

Io porterei con me la Bibbia, il Libro dei libri. E se mi domandassero ancora: <E se di quel libro potessi portare una sola pagina, quale sceglieresti?>.

Probabilmente quella del Van gelo di oggi, da Matteo 7, 7-12:

<In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono! Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti>

Non so nuotare

Non so nuotare  (all’isola mai raggiunta)

 

Poi mi sono ritrovato,

sorpreso,

a sentire la pioggia:

rumore di antiche paure,

affetti portati

all’altare del tempo.

 

Ricordi (li ricordi?, mi ricordi?)

cancellati in fretta

dagli egoismi vostri.

 

Io tolgo il disturbo:

leccarmi le ferite non basta più

(e comunque non basta mai):

cerco altri mari

per imparare a nuotare.

Otto pagine, e un po’ di libertà, in più

Non sono un lettore abituale del Manifesto e, come sapranno i miei amici, quel “quotidiano comunista” sbandierato in prima pagina proprio non mi piace. Ma queste sono le mie convinzioni, politiche o giù di lì.

Perché poi c’è il confronto, il dialogo, il cercare di svelenire questo clima così pesante che c’è in giro, fatto di troppe contrapposizioni  (e a cui, non mi costa ammetterlo, più di qualche volta si mette un carico da quaranta. Sbagliando).

Poi c’è l’amore per i giornali, la passione per la carta stampata. E allora, appena posso il Manifesto lo sfoglio e ne leggo alcune cose che trovo comunque meritevoli, soprattutto in fatto di Cultura. Ecco perché saluto con piacere il fatto che da oggi il Manifesto allarghi la foliazione con 8 pagine in più (con una decisione che la direttrice Norma Rangeri spiega bene oggi sul giornale e che di seguito riporto per un ampio pezzo).

Mentre i lettori scarseggiano, mentre questi governanti hanno deciso di fare carta da macero della carta di giornale, la decisione del Manifesto va in controtendenza. E va rimarcata, anche da chi la pensa diversamente.  Chapeau!

di Norma Rangeri – Care lettrici e cari lettori, con voi condividiamo da quasi 50 anni l’impegno a far vivere il nostro giornale e dobbiamo essere sinceri nel dirvi e dirci cosa ci aspetta. E la verità è semplice quanto dura: se neppure quel po’ che resta del Fondo dell’Editoria sarà garantito alle testate che ne hanno diritto ( il manifesto prima fra tutti visto che alle spalle non ha né un partito, né una Fondazione, né un finanziatore), allora molto probabilmente dovremo affrontare una condizione inedita.

Il taglio sarà immediato e progressivo. Da tempo navighiamo tra Scilla e Cariddi, tra la crisi storica del mercato della carta stampata e la altrettanto storica crisi della sinistra. Per combattere gli invincibili mostri del nostro tempo, la rassegnazione e l’indifferenza quanto l’ignoranza e la violenza, in questi ultimi anni abbiamo lavorato a rafforzare questa nostra casa comune (la testata nella forma cooperativa con i suoi bilanci in ordine).

Ma ecco che, non bastasse la crisi precipitosa del settore, il nuovo governo del cambiamento ci viene contro con tutta la forza provocando un enorme danno, minando le nostra fondamenta. Se crolla il pilastro dei Fondi dell’editoria (come avverrà nei prossimi mesi) davanti a noi si profila la tempesta perfetta. Reagiremo anche questa volta, come accadde quando ci siamo ricomprati la testata, pronti a difenderci, convinti che la miglior difesa è l’attacco. Da oggi siamo in edicola ogni giorno a 24 pagine, 8 pagine in più

E’ morto un edicolante

E’ morto un edicolante. Si chiamava Mario, Mario Cicerchia. Vendeva giornali nella piazza principale di Alatri, nel cuore della mia Ciociaria. Non posso dire che fossimo amici, però devo anche a lui la passione per i giornali, sbocciata subito dopo aver imparato a leggere in prima elementare, grazie ai quotidiani e alle riviste portate a casa da papà. Una passione poi maturata con le lunghe estati da adolescente nella grande casa di nonna a Ceprano, dove c’erano non solo i settimanali di nonna Maria, ma anche i quotidiani presi dai miei zii Aldo e Tonino; in pratica li “sequestravo”, li leggevo dalla prima all’ultima pagina e qualche volta si arrabbiavano perché poi non sempre li trovavano più. Adesso posso confessarlo: li nascondevo, così quando andavano via potevo leggerli in santa pace, a voce alta e, con un bastone davanti come fosse un microfono, facevo finta di essere un inviato mentre declamavo i reportage. Un giorno – e forse avevo 12 o 13 anni – scrissi anche al direttore di un grande giornale per dirgli che dovevano prendermi e far scrivere me da Washington o da Mosca, perché non era giusto che tanti articoli li scrivesse solo un certo <r.e.>… ma come facevo allora a sapere che si trattava della sigla “redazione esteri”?

Vengo a Mario: le scuole superiori le ho frequentate ad Alatri, un’oretta scarsa di bus ogni giorno andata e ritorno dalla mia Frosinone. Maledivo eventuali ritardi perché temevo di non farcela a passare dal giornalaio, anche se poi la bidella già sapevo che avrebbe chiuso un occhio per 5 o 10 minuti. Perché ogni mattina la tappa fissa era in quella vecchia edicola, a consumare le mie paghette. I primi anni non osavo rivolgere la parola a quell’edicolante, a parte il nome del giornale da prendere, anche per tutta una serie di complessi legati in particolare alla mia estetica non eccelsa. Ma, se non ricordo male, dal terzo anno in poi diventammo come amici: gli chiedevo continuamente dei giornali, delle nuove uscite, e solo in quei pochi minuti non me ne importava niente dei miei complessi, degli sfottò dei compagni di scuola, anche perché lui mi stava a sentire.

Ma finite le superiori, come spesso accade, finì anche un ciclo della vita. Ad Alatri vado spesso ma sempre già giornale-munito, perché anche le abitudini cambiano e da decenni oramai ho l’edicola di riferimento del mio amico e compare Tonino. Nell’edicola di Mario sono capitato sempre più di rado e, negli ultimi tempi, credo una sola volta, nell’inverno di due anni fa o giù di lì, comunque a distanza di quasi 35 anni dai tempi delle superiori. Era domenica mattina presto e credo che Mario mi abbia riconosciuto quando sono entrato, o forse quando gli ho chiesto il quotidiano da prendere. Di certo mi ha riconosciuto, e l’ho capito da un lampo nei suoi occhi già un po’ stanchi, quando mi è venuto da chiedergli: <Allora, come vanno questi giornali?>. E si è messo a raccontare, come tanti anni fa.

(la foto, di Marilinda Figliozzi, l’ho presa dal profilo facebook dell’ottimo collega Massimiliano Pistilli e ritrae proprio Mario Cicerchia piccolino, strillone nella sua Alatri).

Cadono sempre in piedi

Ci sono quelli che cadono sempre in piedi: la vita – che per gli altri, per tutti noi, è comunque un percorso tra pianure, discese ma anche tanti ostacoli – non li scalfisce minimamente. Ne fanno di cotte e di crude, lasciano sul campo cadaveri nel corpo e nello spirito, attraversano bufere che stroncherebbero chiunque, eppure loro – solo loro – cadono sempre in piedi. Hanno sempre una scappatoia, una via d’uscita, un gruzzolo sotto il materasso. E poco importa se quella via d’uscita la occupano con una mole di nefandezze, se quel gruzzolo in realtà arriva dal sudore di altri e a loro non apparterrebbe. Perché loro cadono sempre in piedi.

Ci vorrebbe una legge per punire quelli che cadono sempre in piedi. Ma poi, a farsi tutte le leggi, anche quelle non scritte, sono sempre loro. Loro che cadono sempre in piedi. Ci vorrebbe allora una legge divina, non come castigo o punizione perché non è questo il Dio che abbiamo, ma perché capiscano almeno una volta il male che stanno facendo e ritrovino un po’ di coscienza all’ennesima caduta. Loro che in realtà neppure cadono, perché cadono sempre in piedi. (mentre c’è chi in piedi non riesce neppure più a stare, piegato da una vita che scivola via).

La vita inizia quando trovi il libro giusto. E allora non inizia da qui

Per via della mia deliziosa mania di leggere e collezionare libri sui libri (anche se da ultimo il collezionismo in questione sta andando a farsi friggere vista la galoppante crisi economica, con il ripiegamento sulle biblioteche pubbliche, peraltro luoghi adorabili per la cura amorevole di chi vi lavora) mi sono lasciato ovviamente attrarre da questo titolo “La vita inizia quando trovi il libro giusto”.

Titolo bellissimo, anche se quello originale è “The book Ninja”. Scritto dalle australiane Ali Berg e Michelle Kalus (anticipo una critica: addirittura quattro mani di scrittura quando ne bastava sì e no mezza) e pubblicato in Italia da Garzanti, il libro è un romanzone di 300 pagine con poco capo e pochissima coda. Nel senso che, una volta terminata la lettura, ti resta poco, praticamente niente.

In breve la trama: una delle protagoniste lascia libri sui mezzi pubblici e chi li trova poi scrive alla sua mail, i due poi si vedono e i resoconti degli incontri finiscono sul blog della fanciulla. Quest’ultima, inoltre, gestisce una libreria con un’amica. Ce ne sarebbe di che scrivere di libri e sui libri, ma in realtà gran parte del romanzone è occupato dalla storia d’amore della signorina, con un giovanotto che peraltro legge libri rosa e per ragazzi, e dunque non sarebbe il suo tipo; l’altra parte del romanzo è occupato dalle paturnie della socia della libreria, che impiega il tempo della dolce attesa a cornificare il marito mentre questi (ma dove l’avrà trovato?) sferruzza tutto il giorno per preparare maglioni per gli amici e copertine per gli animali degli amici. Di tanto in tanto, emerge qualche spaccato dell’Australia, terra che ci piacerebbe davvero conoscere meglio, ma questo libro proprio non aiuta nell’intrapresa, se non per l’informazione che ne ricaviamo che anche laggiù piaccono i libri di Elena Ferrante (e forse neppure questo è un bene, ma qui il discorso ci porterebbe lontano).

Ovviamente nel risvolto di copertina si parla di <caso editoriale> in ogni dove del mondo. Dove però forse il libro in questione mica l’avranno letto sul serio, perché i <casi editoriali> sono ben altri.

Per trovare una cosa decente, bisogna arrivare a pagina 308, la terz’ultima del libro, nei ringraziamenti finali di prassi: qui Ali Berg, una delle autrici, ringrazia il papà John e scrive così: <crescere in una casa piena dei tuoi libri di ogni genere, di autori di tutto il mondo, mi ha insegnato fin da ragazzina che una vita senza libri è una vita che non vale la pena di essere vissuta>. Molto bello, almeno questo (e con un consiglio finale non richiesto: continui a leggere libri, e lasci stare di scriverne).

Cercasi laici

Sono sempre di meno quelli che animano le comunità. Stanchezza e problemi quotidiani prevalgono, ma il loro ruolo è indispensabile nella Chiesa. E allora serve ripartire

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Inutile negarlo, nascondersi dietro un dito o – peggio – far finta di niente: c’è un po’ di stanchezza in quei laici che danno una mano, e a volte anche tutte e due, nelle “cose di Chiesa”. La fotografia che possiamo scattare anche nelle nostre comunità non lascia grossi dubbi: nelle parrocchie sono sempre di meno i laici che si danno da fare e affiancano i sacerdoti nelle varie incombenze pastorali. Tanti servizi oramai non vengono più prestati, diverse attività sono ridotte al lumicino se non addirittura scomparse perché non c’è più chi le anima. Anche quelle più comuni fanno fatica. Due esempi su tutti: i catechisti sono sempre di meno, i volontari delle Caritas parrocchiali pure. Chi scrive ha approfondito il discorso con diversi sacerdoti, che hanno il polso della situazione, e la sintesi è una sola: la gente ha tanti problemi – familiari, di salute ma soprattutto economici – e ha sempre meno tempo per “le cose di Chiesa”. Il tutto si riflette anche tra associazioni e movimenti e neppure qui si riesce a trovare forze come una volta. Certo, non tutto è da buttare e, così come non sono tollerabili infingimenti, neppure va drammatizzata la situazione. Però serve parlarne, rifletterci su, analizzare il fenomeno e, senza la presunzione di servire ricette, offrire qualche soluzione.

D’altro canto, i laici hanno identità e missione ben precise all’interno della Chiesa.

Dal Concilio Vaticano II in poi, si è sviluppato un interessante dibattito sul ruolo dei laici nella Chiesa, qualcuno ha parlato anche di “teologia del laicato”, e i toni positivi hanno prevalso su quelli fuorvianti: raramente la corresponsabilità è stata intesa come un’invasione di campo o, di converso, come una messa ai margini. Sempre più si fa strada il concetto del laico come “cristiano testimone”. E allora potrebbe essere questo un punto di ri-partenza: dare testimonianza come si può, anche se la stanchezza è tanta, se è difficile arrivare alla fine del mese, se prepari il pacco per i poveri e pensi che stai per diventarlo anche tu. E cercare l’aiuto della comunità, senza isolarsi né isolare. Guardando ai santi – primi testimoni – capaci di ridestarci il significato che forse stiamo smarrendo. Giovanni Paolo II, a proposito di santi, nella Lumen Gentium parlava di “vocazione” all’essere laici, con lo scopo di “cercare il Regno di Dio, trattando le cose temporali ed ordinandole secondo Dio”.