Noi del Frosinone abbiamo avuto UN INIZIO difficile e può starci. Ma a Televideo Rai è da un bel po’ che se la passano maluccio con la grammatica.
Il seme di Rolando Rivi
Amo moltissimo, e non c’è sera che non rivolga anche a questo Beato la mia povera voce di preghiera, la figura di Rolando Rivi: seminarista, aveva appena 14 anni quando nel 1945 i partigiani comunisti lo uccisero barbaramente nei boschi del Reggiano, dopo tre giorni di indicibili torture. La “colpa” di quel ragazzino? Prepararsi a diventare sacerdote, amare Gesù (“Io sono di Gesù”, ripeteva spesso) sopra ogni altra cosa, indossare la talare anche in quel periodo in cui, a causa della guerra, il seminario dove studiava era stato chiuso. E di quella talare i partigiani ne fecero straccio di pezze, lasciando il povero Rolando con la maglietta di lana preparata da sua mamma, pure questa ridotta a brandelli e insanguinata, e che oggi si può vedere e venerare come una reliquia.
<Apparteneva al Signore con tanto amore da suscitare l’odio di chi voleva cancellare Cristo dalla storia dell’uomo>, ha dichiarato di recente Emilio Bonicelli, giornalista , scrittore e anima del Comitato “Amici di Rolando Rivi”, al collega Matteo Matzuzzi del Foglio.
Ho scritto molto su Rivi e ogni volta che trovo nuove notizie sul Beato Rolando (Papa Francesco lo volle tale pochi giorni dopo la fine del conclave, come uno dei primi atti del suo pontificato, e anche questo è un segno straordinario) provo una gioia immensa. Come questa mattina quando, aprendo il quotidiano Avvenire, ho trovato un bel reportage di Edoardo Tincani sul pellegrinaggio di centinaia di studenti sui luoghi di Rolando, per affidare proprio all’intercessione del Beato le fatiche del nuovo anno di studi. Lungo “Il Cammino di Rolando”, splendida iniziativa di cui mi ha parlato tempo fa con entusiasmo contagioso proprio Emilio Bonicelli, questi giovani sono arrivati a Marola, nella chiesa annessa al seminario dove il piccolo Rivi si preparava a studiare da sacerdote, prima di incontrare la furia dei partigiani di quelle terre, intrise di anticlericalismo assurdo, fino ad uccidere. A Marola la Messa è stata presieduta da mons. Massimo Camisasca e ancora una volta il presule ha usato parole di assoluta vicinanza al messaggio di Rolando, e dunque al cuore di ognuno: «Siamo qui per trovare risposta alle domande di verità e di felicità che portiamo nel cuore. Desidero che da Rolando abbiamo a imparare quello che è stato il cuore di tutta la sua breve e intensissima vita: la testimonianza a Gesù. In fondo di lui sappiamo poche cose, ma queste ci bastano. Portava l’abito talare non perché era un bigotto, non perché voleva isolarsi dalla vita. I suoi compagni, ancora oggi viventi, mi hanno raccontato che era sempre il primo a dire: “Andiamo a giocare a pallone”. Portava l’abito perché quello era il suo modo per dire: Gesù è vivo, Gesù mi ama, Gesù mi ha voluto suo. Questa che è stata anche la causa prossima del suo martirio è il messaggio, anzi, il mandato che oggi ci lascia: siate testimoni di Gesù».
Peraltro, sono rimasto sempre colpito dal fatto che monsignor Camisasca, da uomo di autentica fede e cultura qual è, ebbe ad occuparsi di Rolando Rivi quando ancora la storia del ragazzino la conoscevano in pochi, per poi ritrovarlo così vicino anche geograficamente alla Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla di cui è stato voluto vescovo.
Una attenzione particolare che Camisasca ha esplicitato anche con la fondazione di una casa di Memores Domini proprio a Castellarano, vicino al santuario dedicato al Beato Rivi.
Il seme di Rolando (della cui figura mi sto anche occupando in una sorta di biografia romanzata che vorrei terminare quanto prima) continua insomma ad infiammare tanti giovani ed è un dovere anche per i “grandi” ri-scoprirlo, proprio per essere guide migliori e degne. A tal proposito, esiste già una discreta bibliografia, con opere dello stesso Bonicelli, di Andrea Zambrano, Paolo Risso, un docufilm di Riccardo Denaro, introdotto proprio da Camisasca e Bonicelli con libretto accluso (sul sito di Itaca lo reperite con facilità) , oltre ad uno spettacolo teatrale che Davide Giandrini, che lo ha scritto e lo dirige, sta portando in giro per l’Italia.
Tanti auguri (a me)
Sto ricevendo ancora tanti auguri, nel giorno del mio compleanno. Moltissimi sono auguri che qualcuno definirebbe solo “virtuali” perché espressi attraverso i social; ma non li disdegno, anzi: in tanti di questi messaggi c’è comunque un pensiero personale, sempre piacevole: si capisce che chi è dietro la tastiera di un pc o di un telefonino comunque si è fermato un minuto per te, solo per te.
E tutti ringrazio, ad iniziare dagli amici più cari che invece hanno speso una telefonata diretta o una visita personale.
A tutti “grazie” ma davvero, di cuore: in un momento poco facile del mio percorso di vita, tutto questo è comunque una Grazia.
E stamattina, appena uscito di casa, uno splendido arcobaleno mi ha salutato: anche dal Cielo mi hanno fatto gli auguri.
Il Creato in pagina
Giornata del Creato
Mio padre e Lady D.
In queste ore, come ogni anno nell’anniversario della morte, fiumi di inchiostro e decine di servizi tv su Lady Diana. Piaceva tanto a mio papà Lady D, assieme a Marylin Monroe, e non ho mai capito perché (pur condividendone la scelta). Anzi, mi accorgo ora di non averglielo mai chiesto, come tante altre cose: l’avarizia nei rapporti padre e figlio dovrebbe essere considerata peccato mortale e la legge dovrebbe punirla con l’ergastolo.
Anche oggi, quindi, avrei portato a papà tutti gli articoli che trovavo su Lady D., lui li avrebbe ritagliati per bene e messi nella sua colorata cartellina con l’intestazione “Lady Diana”.
Un giorno andrò ad aprirle tutte quelle cartelline: sarà un po’ come risentire la voce di papà. E tutte le parole non dette.
Le vacanze, la fede
Sul numero del settimanale “Credere” in edicola da oggi, c’è il mio articolo dal titolo <A Ischia il turismo si fa fede>: un piccolo reportage dall’isola, assieme al parroco don Emanuel, per raccontare la pastorale del turismo, l’attenzione ai villeggianti – anche stranieri – e la riscoperta di itinerari religiosi della tradizione.
SILENZI IN VIAGGIO
Juve-Napoli: non solo una partita
I miei famosi trentatré lettori ( ma soprattutto i tanti amici comuni e i tantissimi che condividono la passione per il calcio) sanno che non ho in particolare simpatia (eufemismo) la Juventus.
Stesso discorso vale per il Napoli, e qui stanno in piedi anche motivazioni personal-familiari attorno alle quali non vale la pena discettare. Pur riconoscendo che ho adorato giocatori dell’una e dell’altra (Scirea e l’immenso Baggio Roby da una parte, dall’altra Rudi Krol e il mio conterraneo Peppe Incocciati), se avessi la sfera magica del calcio, vorrei che vincessero una partita sì e 30 no.
Non metto le mano avanti, e neppure le gambe in un pericoloso tackle, per dire invece che un libricino (nella migliore accezione del termine) di recente pubblicazione mi ha un po’ ravvicinato a Juve e Napoli, anzi a <Juve-Napoli. Romanzo popolare>, come nel titolo di questo libro di Darwin Pastorin e Vincenzo Imperatore, edito da Aliberti.
Vincenzo Imperatore (della cui amicizia seppur virtuale mi onoro, e spero che questo non mi faccia velo nel parlare di codesto libro) è il tifoso napoletano, ha scritto saggi economici-finanziari soprattutto sul (pessimo) ruolo delle banche, portando anche a teatro, in un’operazione coraggiosa come poche altre, uno dei suo libri.
Darwin Pastorin, brasiliano di nascita e italo-juventino per tutto il resto, è giornalista che chi dà mostra di seguire il football non può non conoscere (qualunque figlio che non mastica di calcio, tipo il mio che pure ho cercato invano di introdurre ai piaceri della pelota, si innamorerebbe degli eroi in mutande leggendo “Lettera a mio figlio sul calcio” pubblicato qualche annetto fa da Mondadori).
Il libro è un lungo derby a distanza “giocato” sul filo della “memoria”, quel termine magico che rende ancora più bello il calcio: ecco dunque un bel campionato di ricordi – come Pastorin e Imperatore scrivono nell’introduzione non a caso intitolata “precampionato” – che rende evidente perché si diventa tifosi di una squadra. E cosa questo significa nei secoli dei secoli.
A me in particolare sono piaciuti i capitoletti “vivere lo stadio”. Un po’ perché io sono cresciuto a pane e Matusa (il vecchio, in tutti sensi, stadio di Frosinone) e ora mi coccolo il bellissimo “Benito Stirpe”. Un po’ perché da mia nonna sentivo raccontare e mi affascinavano le storie di mio nonno maresciallo, che non ho mai conosciuto, che prestava servizio nella zona del vecchio stadio del Vomero e di come ogni mattina si alzassero spalancando le finestre proprio su quel prato di calciatori.
E se di calcio non capite un accidenti – cosa che in realtà spesso accade anche a chi di calcio afferma di capire – niente paura: questo libro è uno spaccato anche su tutto il resto che è poi la Vita (e dunque ancora il Calcio, ma qui il discorso si farebbe lungo…) e che due penne così sanno dipingere come un acquerello. Con 14 euro, insomma, vi portate a casa calcio e dintorni, senza pentirvene.
Silenzio: parla (e scrive) l’Islanda
Le penne islandesi hanno sempre ragione: prendiamo “Hotel Silence”, l’ultimo libro – almeno tra quelli pubblicati in Italia – di Audur Ava Olafsdottir, docente universitaria sessantenne, ritenuta la più grande scrittrice islandese vivente (se andiamo a comprendere anche i maschietti, però, Helgason Hallgrimur credo sia una spanna sopra).
Questo romanzo – che si può leggere anche come una serie di deliziosi racconti uno dietro l’altro – è la storia di Jonas, 49enne (che bella anche questa scelta di fermarsi alla soglia del mezzo secolo di età) che decide di andare lontano, in un posto dove c’è stata la guerra – e quale sia quel posto la scrittrice non lo dice mai – per fare la pace, soprattutto con sé stesso. In realtà, Jonas è laggiù che vorrebbe trovare la morte, lontano dalla ex moglie, da una figlia che ama più di ogni altra cosa anche se ha scoperto che non è sua figlia naturale, da una madre un po’ ingombrante come le sue parole e tesi svampite. Ma la morte non la trova (non riesce a darsela) dopo che ha conosciuto gli strani e intensi personaggi dell’Hotel Silence: poche camere d’albergo messe su alla meglio dopo che la guerra è finita e dove Jonas si ritrova insieme ai due giovani gestori e ai primi altri due turisti, in verità una attrice di fama che vorrebbe realizzare un documentario sul post guerra e un predone di opere d’arte. Jonas nella sua piccola valigia riempita in Islanda mette dentro anche un trapano e qualche rotolo di nastro adesivo. Sono i due elementi indispensabili per iniziare lì una ricostruzione (le tubature dell’hotel, le porte di un piccolo ristorante dove è l’unico avventore, le camere di una casa dove alcune donne violate dai soldati hanno deciso di andare a vivere assieme): dalla ricostruzione materiale di piccoli grandi cose, alla ricostruzione di sé stesso, ma anche della giovane che gestisce l’hotel e di suo figlio piccolo. Sono pagine di una tenerezza unica, di una scrittura indissolubilmente legata alle atmosfere d’Islanda, anche a migliaia di km di distanza da una nazione che non ha neppure un esercito. Molto contribuisce alla buona lettura l’ottima traduzione di Stefano Rosatti e merito anche alla Einaudi che continua a pubblicare tutti i libri della Olafsdottir.
Pagine che profumano di una religiosità intensa, una sorta di bisogno disperato di Dio, di un Cielo meno cupo. Come peraltro già accadeva ne<Il rosso vivo del rabarbaro>, il libro della scrittrice islandese precedente a questo. Lì c’è Nina che non vuole sprecare le parole: <Quante particelle grammaticali ha adoperato Gesù Cristo per salvare il mondo? Pochissime>. Lì, in quelle stesse pagine, c’è l’essenzialità della terra d’Islanda: <Lo so che vorresti poter correre – dice la protagonista a una bambina che non può farlo per un handicap fisico – ma, guarda, c’è pieno così di gente che corre tutta la vita e non arriva mai da nessuna parte>.
Ecco, quella d’Islanda è una religiosità “familiare”, in una terra per niente facile, dove anche il Cristianesimo ha attecchito poco (qualche mese fa ne ho scritto sul settimanale “Credere”, intervistando i padri di una delle poche comunità religiose cattoliche presenti in Islanda). E dove le parole davvero restano scolpite come pietre. Grazie anche a libri come questo.
Ps: poi c’è l’Islanda delle mille atmosfere che si può scoprire grazie a scrittori italiani e libri meritevoli. Suggerisco “Siamo state a Kirkjubæjarklaustu, di Valeria Viganò (Neri Pozza), “Tutta la solitudine che meritate” di Claudio Giunta e Giovanna Silva (Quodlibet) e “Ghiaccio fuoco” di Nicola Lecca e Laura Pariani (Marsilio).