Parte oggi una campagna informativa sulle proprietà della carne bovina, vera e propria eccellenza italiana. Provo a scriverne oggi sulle pagine di Economia di Avvenire.
Vicini ai preti (e ai preti della “vicinanza”)
Come laici siamo chiamati ad essere vicini ai nostri preti, in particolare – per il ruolo che svolgono – ai parroci. Anche per questo su “Anagni-Alatri Uno”, il mensile di questa comunità ecclesiale che ho il piacere di dirigere, da due mesi ho iniziato la rubrica “Vita da parroco”. E questo mese ho incontrato don Francesco Frusone, parroco a Morolo e in assoluto il più giovane parroco come età (32 anni) di tutta la diocesi. Ecco il racconto di questo incontro…
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La seconda tappa del nostro viaggio “Vita da parroco” ci porta a Morolo, 3200 abitanti alle falde dei monti Lepini e che la leggenda vuole fondata da Annibale, che da queste parti passò attorno al 200 avanti Cristo per poi dirigersi verso Roma, con intenzioni poco amichevoli. Il nucleo storico del paese è dominato dalla chiesa di Santa Maria Assunta, con le caratteristiche due scalinate e la statua di San Francesco che richiama l’opera dello scultore Ernesto Biondi, gloria locale.
Qui è parroco don Francesco Frusone che, con i suoi 32 anni, è il più giovane parroco della diocesi di Anagni-Alatri. Arriva da Pignano, popolosa contrada di Alatri, e ha appena festeggiato i due anni di presenza a Morolo, dopo che nei tre anni successivi all’ordinazione del 2013 era stato invece vice parroco a Civita di Alatri.
Ma cosa ha signifcato per un giovane prete diventare parroco così… giovane? <Era un momento desiderato – prende a raccontare don Francesco – è come quando diventi maggiorenne e non vedi l’ora di prendere la patente. Ho sentito gioia, entusiasmo, ma anche la preoccupazione delle tante cose da fare, il mio desiderio di arrivare a tutti, il confrontarmi con i miei limiti e difetti. A Morolo sono stato accolto bene dal… terzo giorno – scherza don Francesco – perché un po’ di scetticismo iniziale era comprensibile, anche perché in paese si erano alternati diversi preti, poi andati via, anche stranieri. Ma dopo due giorni mi sono sentito dire: “Ecco un prete che parla il dialetto come noi” e sono stato accolto dal cuore grande della gente di Morolo, che è davvero generosa in tutto quello che fa. Praticamente ogni famiglia mi ha invitato a cena e sono subito ingrassato di dieci chili!>. In un paese neppure tanto piccolo, le urgenze pastorali non mancano. <Penso a quella della formazione – sottolinea don Francesco – all’urgenza di rendere tutti consapevoli e partecipi dell’azione pastorale. Penso ai giovani e per loro vorrei trovare sempre più attenzione. Ci sono 60 bambini della comunione e 30 della cresima e un bel gruppetto del post cresima che cerco di seguire con degli incontri a tema. Ma la cosa più importante credo sia la mia vicinanza, stare con loro anche in maniera semplice, ma starci>, aggiunge in maniera accalorata, mentre non a caso, dal tavolino del bar della nostra chiacchierata, ogni tanto deve alzarsi proprio per salutare questo o quel ragazzo, una coppia o una giovane mamma.
Morolo, poi, è un paese che, come tanti, vive lo svuotamento del centro storico. <Molta gente – rimarca don Frusone – si sposta nelle campagne, quasi non si distingue più il confine con gli altri paesi. In centro sono rimaste 300 famiglie e allora non è semplice l’azione pastorale, penso al momento delle benedizioni, ma anche questa è una sfida per me perché sono chiamato a stare comunque con queste persone, in tutti i luoghi dove si trovano, con una vicinanza che vuole essere anche umana. E qui mi riallaccio al discorso dei giovani: è questa la Chiesa che vuole papa Francesco, è questo che ci chiede il nostro vescovo Lorenzo. Una Chiesa accogliente>. E “accoglienza” è il termine che questo giovane parroco, dall’aspetto e dai modi che trasmettono una naturale simpatia, ripete più volte durante la chiacchierata. <Verso i giovani – riprende don Francesco – serve vicinanza, serve frequentare i luoghi che loro frequentano, diventare amici, compagni di viaggio. Chiedono una Chiesa vicina a loro. Se invece fai solo mille incontri, non vai da nessuna parte>. Don Francesco, invece, ha ben chiara quella che è la sua “direzione”, fin da quando bambino giocava nelle campagne di Pignano e i suoi decisero di mandarlo nel seminario minore per farlo studiare; e lì è nata ed è maturata la sua vocazione <e la mia famiglia è stata importante perché mi ha trasmesso la fede, anche se poi non è stato facile accettare che l’unico figlio maschio (ha due sorelle, ndr) diventasse prete…>, sorride don Francesco, pronto per un’altra giornata da parroco a Morolo, intervallata per tre mattine alla settimana dall’insegnamento al Bonifacio VIII di Anagni. <Anche la scuola la metto al centro, perché ti fa sperimentare dove sono i ragazzi, ti fa lavorare con loro e per loro, come ripete il nostro vescovo. Per me prete è anche importante il contatto con le famiglie dei ragazzi, capire le loro esigenze. E questo poi mi aiuta nella pastorale di tutti i giorni proprio con le famiglie, a dialogare, ad entrare in sintonia con loro>, conclude don Francesco, tornando a quella parolina “magica” ed efficace: vicinanza.
Il riflesso
ECCO L’EDITORIALE DELL’ULTIMO NUMERO DI “ANAGNI-ALATRI UNO”, IL MENSILE DELLA DIOCESI DI ANAGNI-ALATRI CHE HO L’ONORE DI COORDINARE
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Sinodo dei giovani e convegno ecclesiale della diocesi di Anagni-Alatri: l’accostamento tra “le cose di Chiesa” più forti di queste ultime settimane non è ardito e, anzi, è il riflesso della Chiesa universale che si specchia in quelle locali, e viceversa. Un riflesso che ci piace assai, che ci fa sentire sempre più Chiesa.
Al centro, dell’uno come dell’altro evento, i giovani: non il giovanilismo fine a se stesso, l’inseguire mode – e modi – che non sono proprie della Chiesa, ma una riflessione acuta, seria e di prospettiva su un mondo che chiama e interpella, oggi più che mai. Che non ammette mezze misure, che non tollera scorciatoie, che non vuol sentire parole a vanvera.
La prospettiva è tutta nelle risposte da dare, senza perdere altro tempo, senza sprecare l’occasione di questo tempo, data proprio dal fatto che le giovani generazioni hanno bisogno di punti di riferimento, di non sentirsi abbandonate. Di avere, in sintesi, dei compagni di viaggio affidabili e instancabili. In questo senso gli “uomini di Chiesa” possono dare e fare tanto. E allora, ci permettiamo di dirlo da laici consapevoli, la prospettiva diventa anche quella di un impegno vocazionale che allarghi gli orizzonti di questi giovani e dia loro quei compagni di viaggio di cui necessitano.
Fuor di metafora: non possono mancare santi sacerdoti che accompagnino questi ragazzi nel cammino di una vita che dall’incerto deve poi poggiare sul certo. Vanno bene tutti gli incontri, le riunioni, i raduni, le vacanze, gli oratori di questo mondo, ma se i nostri ragazzi dentro ognuno di questi momenti non trovano un sacerdote, il rischio di smarrire la bussola – o di non trovarla per niente – è grande. E’ un po’ quello che già stiamo conoscendo noi adulti, sempre più simili al protagonista della canzone di Celentano che in estate si ritrova <senza un prete per chiacchierar>. E si fa subito autunno, inverno.
Anche come Chiesa locale siamo invitati a fare qualcosa e di più. E così diventano essenziali la preghiera (<pregate il padrone della messe…> e la vicinanza ai preti (non di rado invece siamo loro “vicini” solo con le maldicenze).
Opportunità per giovani Neet
Profit-no profit: insieme è bello (e fa bene)
Ma chi manda in onda “I bastardi di Pizzofalcone”?
Non leggo i libri di Maurizio De Giovanni e mi fido del parere della mia amica Laura Collinoli che li ritiene belli. Ergo: la trasposizione televisiva deve essere allora una libera interpretazione dei liberi, perché i “gialli” che manda in onda Rai Uno nella serie “I bastardi di Pizzofalcone” di giallo hanno (scusate l’immagine forte, ma quanno ce vo’ ce vo’, come dicono a Roma) sì e no il colorito di quello che dalla bocca finisce nel water dopo aver visto le puntate, tipo soprattutto – e tra un po’ diremo meglio perché – quella di ieri sera.
Storielle esili, che capisci come va a finire alla seconda inquadratura. Attori che, nella vita reale, non vorresti come giudici o poliziotti neppure se fossi il peggiore dei delinquenti e dunque avresti solo da guadagnarci dalla improponibilità delle maschere portate in tv da Alessandro Gasmann e Carolina Crescentini (di converso, delle liete sorprese sono invece Gennaro Silvestro, nei panni dell’agente che trova una neonata tra i rifiuti, e Gianfelice Imparato, che impersona il poliziotto saggio vicino alla pensione, mentre Gioia Spaziani conferma doto eccelse ma sottovalutate dal cinema e da una certa tv).
Ma il punto è un altro (l’ho già scritto, ma mi piace coerentemente ripeterlo e rimarcarlo): nella fiction tv – nei libri, ripeto, non so – c’è una giovane poliziotta lesbica che intreccia un rapporto con una superiora. Ogni puntata è la stessa solfa di sbaciucchiamenti e amoreggiamenti dove capita, dai talami di certe case che per mantenerle dovresti guadagnare almeno 10mila euro al mese ai corridoi di un commissariato. Ma ieri sera – lunedì 5 novembre – la Rai radiotelevisione italiana ha raggiunto il massimo, con scene di “amore” lesbico ripetute e ostentate della poliziotta in un club o in mezzo alla strada, fino alla “morale” dell’altra “innamorata” tradita, che invece chiedeva un “rapporto stabile”. Una immondizia allo stato puro, una moralità rifilata sotto i tacchi. E presa dalle tasche di quanti, come me, con i soldi del canone non vogliono certo finanziare “opere” del genere. Per giunta in prima serata, quella che una volta mettetevi la famigliola davanti alla tv e anche così costruivi un’Italia migliore, degna di antichi Valori.
Una Cittadella in mezzo al Cielo
Sarà banale e scontato, ma da stamane – pensando a queste povere cose da scrivere – mi martella il ritornello della bella canzone “La vita è adesso” di Baglioni, un testo autenticamente religioso, come ha fatto notare l’ottimo Andrea Pedrinelli nel suo libro di qualche anno fa “Quel gancio in mezzo al cielo”.
Io, un bel pezzo di cielo ce l’ho a pochi chilometri da casa, qui a Frosinone: è Cittadella Cielo, il cuore dell’esperienza di Nuovi Orizzonti. Un’esperienza che sto imparando a conoscere piano piano, grazie all’amicizia (e alla pazienza nei miei confronti…) di don Davide Banzato.
Mi piace la loro gioia, mi affascina la loro gratuità nel dare, mi fa riflettere sulla mia pochezza la loro “grandezza” nel mettersi davanti al prossimo senza esaltarsi. Per questo, per tutto quello che fanno (per i giovani schiavi di mille dipendenze, in particolare) vanno aiutati. E ancora per pochi giorni possiamo aiutarli semplicemente, con un sms, al costo di due caffè. Oggi provo a scriverne sulle pagine di Lazio Sette, l’inserto della domenica di Avvenire.
Ps: in quel pezzo di cielo vicino casa, quando ancora era un rudere e io ero un ragazzino, correvo con la bicicletta e andavo a giocare a nascondino con gli amici. E’ davvero bello che, dopo tanti anni, il Signore abbia fatto “tana” attraverso questi nuovi Amici.
Davanti alla tomba
Sghembi
petali di margherita,
ammiccanti primavere
di giochi e risate:
non vi prendo,
che tanto l’amo lo stesso
E che ci fate
in questo luogo di fornaci
che accendono ricordi?
Togliete il disturbo
da un prato ansimante
rabbie e dolori
e comunque un vento,
forte di malinconie
e più odoroso di inutile corolla,
presto verrà a spargervi:
non vi prendo,
che tanto i fiori mai ha amato.
Solo la vergogna non resta sotto le macerie
Non ci sono terremoti di serie A e di serie B. Non possono esserci, soprattutto in un Paese come il nostro che certe tragedie le vive straordinariamente in termini di solidarietà. E che poi li patisce in termini di dopo-terremoto, dalla burocrazia alle mancate ricostruzioni (probabilmente solo il Friuli ne è rimasto indenne).
L’altra sera delle persone di una associazione benefica, la DaMa Onlus, raccontavano ad esempio di aver raccolto una discreta somma di denaro da destinare ad Amatrice ma di essere rimaste poi impantanate nel fango assurdo della burocrazia, prima di trovare a fatica una “scappatoia” per destinare comunque quel denaro.
Adesso sono 16 anni dal terremoto in Molise, un sisma passato in effetti un po’ in sordina, se non fosse stato per il terribile effetto emotivo del crollo della scuola di San Giuliano e della morte di 27 bambini. Oggi il vescovo di Termoli-Larino affida all’agenzia Sir le sue parole, assai tristi ma anche di esemplare condanna, per questo mesto anniversario. Eccole, senza alcun bisogno ulteriore di commentarle: <Dopo 16 anni cosa è cambiato nel nostro territorio? Molto, e possiamo dire che niente è più come prima. I nostri comuni hanno accelerato rovinosamente la via del declino demografico, sociale, economico, tante piccole imprese sono fallite con la perdita di tanti posti di lavoro (anche a causa della gestione della ricostruzione); l’auspicato rilancio economico si è arenato tra le maglie di una burocrazia maligna, di amministrazioni, a tutti i livelli, ingessate, di farraginosi meccanismi che ritardando interventi promessi, hanno fatto perdere ogni possibilità di ripresa. Non sono mancati casi di sciacallaggio, di ruberie, di scandalose diseguaglianze e palesi atti di ingiustizia”>.