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I bastardi di Pizzotelevisione

Stasera in tv danno la seconda serie de “I bastardi di Pizzofalcone”. Per chi, come me, adora i polizieschi, dovrebbe essere un appuntamento irrinunciabile. E invece non la vedrò, coerentemente con il mio modo di essere e per rispetto dei Valori in cui credo.

Una delle parti preponderanti della serie, infatti, è il rapporto lesbico tra due donne, ostentato, spiattellato davanti ai telespettatori di ogni età (e convinzione), come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ma non lo è, nonostante tutte le forzature di un laicismo esasperato ed esasperante. Nonostante la lobby gay si sia oramai infilata dappertutto.

Lo so, non importerà (quasi) a nessuno, ma sarò lieto del fatto che l’auditel – posto che pure questo non sia in mano a qualche lobby, non si sa mai – registri uno spettatore in meno. E magari 2 o 3 o 10 o 100.

Ps: nella serie recita anche la mia concittadina Gioia Spaziani, che ebbi modo di iniziare a seguire professionalmente all’inizio delle sue esperienze, e sono lieto per lei. Ma la coerenza supera anche l’appartenenza e il nostro grande senso di “ciociarità”. Per cui: tv spenta.

 

 

 

A tavola con tutto il buono dell’Unitalsi

Ti riempiono il cuore solo a guardarli, i ragazzi disabili dell’Unitalsi. Se poi ti fermi a scherzare con loro, un fiume di allegria ti travolge. E i volontari Unitalsi ogni volta destano il torpore della tua piccolezza, e ti (ri)fanno capire quanto di buono c’è nel cuore degli uomini.

Oggi, a partire da una piccola storia della diocesi di Anagni-Alatri, provo a scriverne nella rubrica “Dulcis in fundo”, sull’ultima pagina di Avvenire.

Nei ricordi del cuore (chiacchierando con un eremita)

Le storie che prediligo (e che poi preferisco raccontare) sono quelle di persone che hanno una Storia. Questo pensiero mi viene ora, mentre scrivevo – perché infatti ho dovuto smettere per un po’ e buttar giù questo pensiero impellente – di un eremita. Solo gli uomini che hanno una Storia sono colmi di umanità. E io questo eremita (uno di quelli veri, che ha scelto di restare nel mondo, seppur staccandosi un po’ dal mondo, con la forza e il cordone ombelicale della preghiera) sarei stato ad ascoltarlo per ore. E in effetti a lungo – ma non per tutto il tempo che avrei desiderato – sono stato a sentirlo, tanto che di sicuro verrà difficile condensare tutto nelle 5/6mila battute richieste. Il resto lo conservo. E lo affido alla pagina, sempre un po’ bianca per fortuna, dei ricordi del cuore.

(la foto che ho scelto non ha nulla a che fare con l’eremita di cui parlo, ma è quella del santuario sui monti Lussari, sopra Tarvisio: quel giorno che ci sono andato a Messa, ho sentito un grande freddo attorno – eravamo in pratica tra due pareti ghiacciate – ma tanto caldo in fondo al cuore).

 

Quel mese missionario

Lo aspettavo con ansia, 11 mesi l’anno, l’ottobre mese missionario. A scuola – la bella scuola delle suore De Mattias – era tutto un fiorire di iniziative per noi bambini delle Elementari. Venivano i missionari a parlare dei bambini poveri in continenti sconosciuti ma che d’improvviso sentivi così vicini; le suore ci portavano nel grande refettorio per i filmini sulla vita di questo o quel santo missionario; i salvadanai sul davanzale della classe si riempivano presto di monetine frutto dei nostri piccoli risparmi (la rinuncia a un pacchetto di Brooklyn o a un Buondì Motta) e dopo qualche mese scriveva una suora missionaria per farci sapere che quei soldi erano arrivati e che laggiù in Africa i bambini come noi potevano finalmente avere una medicina, una lavagna sulla quale scrivere, un quaderno per i compiti.

Adesso nelle scuole (parlo di quelle orrendamente statalizzate e non solo statali) non c’è più traccia della povertà dei bambini d’Africa, ma solo di teoria gender, genitori 1 e 2.

Purtroppo, anche in alcune parrocchie lo spirito del mese missionario è venuto meno.  Ma con il passare degli anni il profumo e il sapore di quell’ottobre mese missionario non l’ho mai dimenticato. Per questo è stato un po’ come un tuffo al cuore tornare ad occuparmi e a scrivere di missioni (ieri per Lazio Sette, l’inserto domenicale di Avvenire); per questo è stato un grande tuffo al cuore incontrare ieri di nuovo, dopo tanti anni, una di quelle suore del De Mattias: mi ha subito riconosciuto (solo le suore maestre sanno riconoscere gli alunni anche dopo 20-30 anni) e mi ha ricordato la mia maestra suor Silvana. Alla quale 45 anni dopo devo ancora delle scuse per come pasticciavo con le forbici e la colla nel preparare i regalini per il mese missionario: ero negato, allora come adesso. Ma quei regalini li porto sempre dentro.

 

Fede e tradizione a Veroli

Tra fede e tradizione a Veroli, nel cuore della Ciociaria, a settembre si rinnova la processione dell’Addolorata. Con tutta una serie di particolarità che rendono unica questa affezione alla Madonna.

Ne provo a scrivere sul settimanale “Maria con te” ora in edicola (e affrettatevi, perché io ho dovuto girare tre edicole prima di trovarne una che non avesse già esaurito le copie).

Omaggio a Paolo VI

Oggi, nella memoria liturgica del Beato Paolo VI (dal prossimo 14 ottobre nella schiera dei Santi), le monache Carmelitane di Carpineto Romano inizieranno a dedicare a papa Montini i Vespri, come ulteriore segno di ringraziamento per una affezione particolare che lega papa Paolo VI al monastero. Oggi provo a scriverne su Avvenire.

Pregando col caffè

La cosa più bella del caffè bollente alle 5 del mattino – quando un po’ di caldo serve per mandar via il freddo della notte di un sonno di poche ore – è il profumo che poi resta per casa anche una o due ore dopo (tanto le finestre non puoi spalancarle, per non svegliare chi invece ancora dorme di gusto).

Starei a guardarlo per ore quel caffè, mentre sale sul beccuccio della macchinetta; e poi sgorga, piano piano ma con decisione, efficace.

Proprio come sale una preghiera al buon Dio, al mattino.