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Gli occhi di Guglielmo (forza, non chiuderli proprio adesso)

Il caso dell’omicidio della povera Serena Mollicone lo seguii dal primo giorno, per “Il Giornale”, insieme (se non ricordo male) a due cronisti del calibro di Gian Marco Chiocci e Max Scafi. Il giorno del funerale s’era sparsa la voce che i giornalisti in chiesa non potevano entrare, eppure quel “pezzo dei funerali” andava fatto. Utilizzai le mie solite conoscenze sacerdotali e convinsi un prete a farmi entrare in canonica, per un (inesistente) bisogno fisiologico impellente, e da lì scivolai in chiesa. Ma poliziotti e carabinieri mi conoscevano e non potevo correre il rischio che mi sbattessero fuori; allora mi acquattai nel confessionale, espediente che poi usai in un altro funerale per un altro servizio di cronaca (e sempre col timore che arrivasse una vecchietta a confessarsi…). La cerimonia ebbe inizio e saltai fuori, arrivando praticamente dietro a Guglielmo, chino sul feretro della figlia, tanto che mi si nota in molte immagini e foto di quel rito.

Ma non ricordo tutto questo per vantarmi di chissà che cosa, piuttosto per un altro ricordo: all’improvviso vennero degli investigatori per invitare platealmente Guglielmo a seguirli in caserma (altro fatto stranissimo di quell’indagine: gli chiesero proprio allora di firmare il verbale per il ritrovamento del cellulare di Serena, stranamente mai rinvenuto in casa prima di allora…).

Guglielmo Mollicone si voltò per un attimo e incrociai i suoi occhi: li trovai – e li ricordo ancora oggi – spenti, quasi terrorizzati, come invocassero aiuto. Ma soprattutto cercavano, 18 anni fa come oggi, Verità e Giustizia (mai vendetta, perché questa non appartiene agli Uomini miti).

Ecco perché, caro signor Guglielmo Mollicone, non puoi mollare e spegnere per sempre quegli occhi proprio adesso. Adesso che sei ad un passo da Verità e Giustizia.

Nelle mani degli adulti

ECCO IL TESTO INTEGRALE DEL MIO EDITORIALE PUBBLICATO SUL NUMERO DI NOVEMBRE DI “ANAGNI-ALATRI UNO”, MENSILE DELLA DIOCESI DI ANAGNI-ALATRI:

Quella che unisce gli adulti ai giovani, e viceversa, non è solo questione di sangue o anagrafica; in gioco – e non sono paroloni o frasi fatte – c’è infatti il futuro dell’umanità, c’è tutto un mondo da ri-costruire, da prendere per mano e in mano, da consegnare alle nuove generazioni. Ecco perché accogliamo con particolare favore la decisione del vescovo Lorenzo di aprire il nuovo anno pastorale rivolgendosi proprio agli adulti, in maniera schietta e diretta, perché accompagnino i giovani.

La “Lettera agli adulti” scritta dal vescovo è stata già distribuita in tutte le parrocchie e la trovate pubblicata integralmente anche in questo numero del mensile diocesano, a partire dalla seconda pagina. Ma alcune cose vanno ulteriormente sottolineate, ad iniziare dall’invito del presule a non perdere tempo rispetto alle istanze, al grido che arriva da quei giovani che <hanno bisogno di sentirsi dire, da ciascuno di noi, una semplice ma fondamentale parola: “Tu mi interessi”>.

Ascoltare e accompagnare: questo viene richiesto agli adulti, in famiglia come a scuola e in parrocchia. Certo, nessuno nasconde le difficoltà che un percorso del genere prevede e nasconde. E che comunque si possono “stanare” con la forza della preghiera e con altri suggerimenti che il vescovo Loppa fornisce nella “Lettera agli adulti”. Ne rimarchiamo uno, diretto e indispensabile, che chiama in causa ogni genitore, ogni insegnante, ogni educatore, ogni parroco e religioso: <Ci dobbiamo impegnare a proporci con una faccia diversa, più positiva, più gioiosa, più affabile e più accogliente>. Il tempo dei musi lunghi, del rinchiudersi in gusci niente affatto protettivi, è pure quello tempo inutilmente e banalmente sprecato. E non ce lo possiamo permettere, come uomini e prima ancora come cristiani.

La santità giovane

Questo è il mio articolo pubblicato sull’Osservatore Romano il 4 novembre.

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Una “notte dei santi bambini” per indicare a tanti giovani la santità dei coetanei Daudi Okelo e Jildo Irwa, catechisti morti lo scorso anno in Uganda poco dopo aver ricevuto il battesimo, del venerabile Carlo Acutis e del beato Rolando Rivi. Santi bambini e “uomini veri”, secondo il titolo dell’incontro tenutosi per la festa di Ognissanti a San Valentino, in diocesi di Reggio Emilia – Guastalla, in quella pieve così strettamente legata proprio alla figura del beato Rivi.

Rolando Rivi aveva appena 14 anni quando venne percosso, seviziato e finito con un colpo di pistola dopo tre giorni di torture, quindi lasciato in un bosco delle campagne emiliane, con indosso la sola maglia di lana, strappata e insanguinata. La sua unica “colpa”, agli occhi degli aguzzini partigiani in quel periodo dell’aprile del 1945 segnato da troppi odi e divisioni, fu quella di continuare a indossare la tonaca da seminarista: non volle abbandonarla neppure dopo la chiusura del collegio dove studiava, decisa proprio per le ambasce della guerra, e il ritorno nella povera casa dei genitori contadini, a Castellarano. Ma la fama di mitezza di quel ragazzino percorse ben presto tutte le vallate circostanti. E si fece subito fama di santità, così legata proprio al suo essere “seminarista ragazzino”, innamorato di quella tonaca (che presto avrebbe desiderato sostituire con quella da curato di campagna del suo adorato parroco) anche quando i suoi aguzzini la dileggiarono facendone una palla da calcio.

Rolando nel frattempo è diventato il beato Rivi, in virtù di una serie di guarigioni miracolose ottenute per la sua intercessione, con Papa Francesco che nel marzo del 2013 (tra i primi atti del suo ministero petrino) ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto per il riconoscimento del martirio in odium fidei. Un martirio che poi s’è tramutato in un bagno di pacificazione, quando — nell’aprile 2018 — la figlia di colui che uccise materialmente Rolando ha chiesto pubblicamente perdono alla sorella e agli altri congiunti del beato ancora in vita.

Martirio, pacificazione e perdono che oggi costituiscono una calamita per migliaia di giovani, diretti nella chiesa di San Valentino dove Rolando è sepolto, nel frattempo eretta a santuario diocesano, e che vivono il pellegrinaggio all’insegna della grazia, della conversione e dell’amicizia.

«Vengono anche dall’estero — racconta Emilio Bonicelli, scrittore e portavoce del Comitato amici di Rolando Rivi — per una fama che non conosce confini. Di recente, un seminarista del Brasile ha portato qui anche i suoi familiari, tutti poveri contadini che hanno faticato non poco per racimolare i soldi del viaggio, dopo aver sentito parlare del beato Rolando. E una famiglia intera è pure arrivata dal Brasile, per un desiderio coltivato da tempo dopo la grazia a una giovane, oggi sposata e famosa architetto, guarita dalla leucemia per intercessione di Rivi dopo aver ricevuto in dono chissà come una reliquia di Rolando, quando ancora non era stato proclamato beato».

E poi, giovani dall’Emilia Romagna e da tutta Italia: a centinaia per il pellegrinaggio di settembre, da San Valentino a Marola, dove si trovava il seminario di Rolando ora trasformato in un centro di spiritualità: due giorni e due notti di cammino, in preghiera e silenzio, soprattutto davanti a quella maglietta, ora custodita in chiesa, ancora intrisa del sangue del martirio. E ancora a migliaia, il 5 ottobre scorso, nel duomo di Modena per il sesto anniversario della beatificazione.

Per il 2020, invece, nel 75° del martirio, il Comitato degli amici di Rolando Rivi intende suggellare il sentiero dedicato al beato con un’altra grande iniziativa, così anticipata a «L’Osservatore Romano»: 32 chilometri completamente immersi nella natura, un vero e proprio cammino vocazionale e spirituale, saranno tutti nel segno della Laudato si’ di Papa Francesco. «Non solo i segnali stradali — precisa Bonicelli — ma anche tutte le tappe del sentiero saranno contrassegnate da targhe e cartelli con brevi estratti dell’enciclica, perché i giovani, accompagnati dall’esempio di Rolando che tanto amava questa natura, possano comprendere e contemplare la bellezza del creato, proprio come indicato dal Pontefice».

E per chi arriva al santuario del beato Rivi, in un paesaggio ancora incontaminato, adesso c’è anche la possibilità di una assistenza spirituale continua, visto l’affidamento del luogo sacro alla Fraternità sacerdotale dei missionari di san Carlo Borromeo.

Missionari, sempre

(editoriale di ottobre del mensile diocesano “Anagni-Alatri Uno”)


E’ un tempo tutto da vivere quello di ottobre, mese delle missioni. E non a caso papa Francesco lo ha voluto “tempo straordinario di missionarietà”, dando questo titolo, che è tutto un programma, al suo messaggio: “Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo”. Le parole del pontefice andrebbero scolpite, soprattutto nei cuori di quanti ritengono che le missioni siano “una cosa d’altri tempi”. E invece, scrive il Papa, <celebrare questo mese ci aiuterà in primo luogo a ritrovare il senso missionario della nostra adesione di fede a Gesù Cristo. La nostra appartenenza filiale a Dio non è mai un atto individuale ma sempre ecclesiale (…). Una Chiesa in uscita fino agli estremi confini richiede conversione missionaria costante e permanente. Quanti santi, quante donne e uomini di fede ci testimoniano, ci mostrano possibile e praticabile questa apertura illimitata, questa uscita misericordiosa come spinta urgente dell’amore e della sua logica intrinseca di dono, di sacrificio e di gratuità. È un mandato che ci tocca da vicino: io sono sempre una missione; tu sei sempre una missione; ogni battezzata e battezzato è una missione. Chi ama si mette in movimento, è spinto fuori da sé stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita. Ciascuno di noi è una missione nel mondo perché frutto dell’amore di Dio>.

Come Chiesa locale abbiamo il dono di una missionarietà che davvero si mette in movimento e, all’interno di questo giornale, vi proponiamo le storie dei nostri due “fidei donum”, un sacerdote e una laica consacrata. Tante altre sono poi le tracce missionarie che troviamo nelle famiglie religiose sia maschili che femminili, negli esempi di generosità del volontariato laico, nelle adozioni a distanza da parte di molte famiglie, in comunità parrocchiali che sostengono progetti e missionari nel cosiddetto “terzo mondo”. Uno slancio che adesso va però alimentato anche nei giovani, perché ritrovi un po’ di freschezza. D’altro canto, i giovani sono capaci di raccogliere l’invito del Papa: <Chi ama si mette in movimento>. Quei giovani cui il nostro vescovo Lorenzo continua a dedicare un impegno pastorale senza risparmio e che abbiamo di nuovo focalizzato (anche di questo parliamo nel giornale che avete in mano) nell’ultimo convegno diocesano di Fiuggi. Con l’invito a camminare, a metterci in movimento con loro.

(nella foto, alcune bambine della Tanzania ricordano i 50 anni dell’arrivo, su una nave, delle prime suore missionarie delle Adoratrici del Sangue di Cristo)

Silone, quel grande cristiano (e la speranza di “Severina”)

Sull’Osservatore Romano di oggi – con data venerdì 11 ottobre e reperibile gratis sul sito del giornale della Santa Sede – ecco un articolo dedicato ad Ignazio Silone e da incorniciare, dal titolo “L’avventura di un grande cristiano”, nella rubrica “Incontri”, scritto da Elio Guerriero, uno dei massimi esperti siloniani (la sua biografia “Silone l’inquieto”, edita nel 1990 dalle Paoline, è una delle migliori mai pubblicate). Evidente il gioco di parole con l’avventura del “povero” cristiano e, prendendo spunto da qui e andando ben oltre, Guerriero tratteggia bene proprio la grandezza di Silone, che altri hanno invece colpevolmente sottaciuta anche in questo 30° anno dalla scomparsa.

Amo Silone come pochi altri scrittori, per una di quelle classiche infatuazioni giovanil-letterarie che neppure so spiegare (forse la lettura di un “Fontamara” alle scuole medie?) ma che poi si sono sedimentate. E adoro in particolare il suo scritto forse meno conosciuto, tanto più che, per il sopraggiungere della malattia e poi della morte, Silone lo lasciò incompiuto: “Severina”. E’ stata poi Darina, la moglie di Silone, a pubblicare quel testo che il suo Ignazio sulle prime intitolò “La speranza di suor Severina” e che stava scrivendo in un albergo di Fiuggi.

E ogni volta che vado a Fiuggi, peraltro cittadina a due passi da casa mia, mi fermo davanti ad un albergo dove Silone vergò quelle pagine, e immagino di vederlo lo Scrittore, lì sotto il gazebo e le foglie gialle tutte attorno a fargli da scudo, mentre verga parole e pensieri chino su un tavolo da giardino, un po’ ingobbito su una sedia bianca e gli occhi solo di tanto in tanto sollevati a guardare una vecchia fontana senza pure uno scroscio d’acqua (così come immagino, ogni tanto, di avere capacità da scrittore e di poter un giorno riprendere e finire io “Severina”, che addirittura vedo anche possibile sceneggiare per la tv e corro perfino a immaginare chi possa interpretare quella giovane suora…).

“Severina” è un susseguirsi di pagine memorabili (trovatelo il libro, leggetelo). “Severina” è – per l’appunto – la speranza messa per iscritto. La speranza (Darina commentò che probabilmente in quella figura femminile, peraltro l’unica protagonista della sua produzione, Silone scrisse di sé stesso) di un grande cristiano.

(nella foto, la prima pagina della mia edizione di “Severina”, edizione Mondadori, acquistata a 19 anni, nell’autunno del 1983, e da allora letta centinaia – o migliaia? – di volte).

Le ciambelle della giovane, timida suora di clausura

La suora è giovane, timidissima. Accoglie i visitatori delle “Passeggiate alatrensi” poco oltre il portone (nella foto) del monastero delle Benedettine, nel centro di Alatri. Poco più in là c’è un altro portone, quello della clausura, e di certo questa giovane monaca avrà avuto il permesso per star lì.

Offre con timidezza i dolci ai visitatori che entrano per ammirare il chiostro. In realtà è già mattina tardi e i dolci sono praticamente tutti finiti: “Aspetti, forse ne abbiamo ancora un pacchetto di là”. Torna subito dopo, sempre timidissima: “Mi spiace, sono finiti tutti, proprio tutti. Però abbiamo ancora queste ciambelle. Le abbiamo preparate fino a ieri sera, non immaginate quanta fatica”.

Prendiamo il pacchetto, lasciamo l’offerta e la giovane religiosa è ancora più timida nell’accettare quei soldi (pochi, ma comunque essenziali per la vita del convento) e addirittura le compare un velo di rossore sul viso quando le diciamo che per il piccolo resto può lasciar stare, accetti anche quello come offerta. Il suo sorriso nel salutare vale molto di più di mille “grazie”.

Fuori, percorriamo appena pochi metri ma non resistiamo: la prima ciambella la mangiamo subito. E’ profumatissima, delicata, di un gusto mai sentito prima: sarà quel gusto della Fede autentica, di quella preghiera spesa per tutti noi dalle monache di clausura, in un apparente nascondimento che invece è Vita che esplode, anche nell’impastare ciambelle fino a tardi.