Ecco come i parroci del Lazio si preparano alla riapertura delle chiese e ad accogliere i fedeli. Oggi alcune voci su Lazio Sette, l’inserto della domenica di Avvenire.
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Voci e volti dell’Italia: quel che resta della quarantena
Tutto concorre al bene
Quella supplica alla “Madonna Greca”
Quando la banda “suona” la solidarietà
A Cassino la banda “Don Bosco” ha deciso di donare strumenti musicali (ma anche tablet e computer) agli studenti di famiglie in crisi, per la didattica a distanza. Oggi su Avvenire, nella rubrica “Dulcis in fundo”. Di seguito il link per leggere l’articolo
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/strumenti-regalati-banda-per-i-ragazziigortraboni
Imparare a consegnarsi all’altro
«Questa emergenza ci deve far guardare ancora di più ai soggetti fragili, perché non c’è futuro se non ripartiamo dalla cura delle persone. Noi non vorremmo essere altrove, ma solo qui, accanto a questi disabili gravi e gravissimi come in effetti stiamo facendo da oltre due mesi. Ma non è importante solo “starci sempre”, ma “esserci sempre”. Il 28 marzo scorso avremmo dovuto incontrare il Pontefice proprio qui ad Assisi, per l’evento Economy of Francesco. Purtroppo, non è stato più possibile. Ma, anche in base all’esperienza che stiamo maturando da queste settimane difficili, ai giovani economisti avremmo voluto dire che l’importante è imparare a consegnarsi con fiducia all’altro».
Parla con il cuore in mano Francesca Di Maolo, presidente dell’Istituto Serafico di Assisi, il centro sanitario per la cura, la diagnosi e la riabilitazione di bambini e ragazzi con disabilità plurima grave e gravissima. In pratica, una seconda casa per gli ospiti, ancor di più da quando è esplosa l’emergenza coronavirus. «Attualmente, abbiamo 80 ospiti residenti e da subito, alle prime avvisaglie della pandemia, abbiamo avvisato le famiglie, ricevendone grande fiducia e una responsabilità enorme, perché bambini e ragazzi sono rimasti tutti qua. E questo, pur nella difficoltà del momento, è molto bello. Il contatto con le famiglie c’è sempre, ad esempio anche attraverso le videochiamate; abbiamo comunque festeggiato i compleanni di alcuni bambini, anche se per la prima volta senza i genitori e i fratelli. E soprattutto, confortati proprio da queste famiglie, abbiamo deciso di non chiudere la struttura, anche perché una trentina di ragazzi non avrebbero più un posto dove andare. E quindi dal 24 febbraio siamo praticamente blindati qui dentro, insieme agli operatori sanitari, per un totale di circa 135 persone, mentre alcuni amministrativi lavorano in smart working e ad altri abbiamo concesso le ferie, per non ricorrere alla cassa integrazione. Dal punto di vista operativo, tutto sommato siamo in una situazione di tranquillità, anche se abbiamo dovuto rivedere un po’ la nostra organizzazione di lavoro». E così, le 6 residenze dell’Istituto adesso viaggiano autonomamente: ognuna ha personale dedicato, così come per ora non sono più possibili i laboratori che prima abbracciavano un po’ tutti gli ospiti, dalla grafica alla cura dell’orto.
«E ci mancano tanto — riprende la presidente — tutti quelli che sono rimasti fuori, le famiglie che accompagnavano i ragazzi al centro diurno, vissuto non come un parcheggio ma come un accompagnamento alla vita, ad una nuova autonomia. Per questo abbiamo istituito un numero verde (800 090122) per assistere queste famiglie, anche quelle che prima non venivano da noi, attraverso un’équipe multidisciplinare di specialisti. Per loro è un dramma, perché si tratta di genitori che ora si ritrovano un carico assistenziale notevole, chiamati a gestire una quotidianità per niente facile, ma con tutti i vari Centri come il nostro bloccati ovunque in Italia (la riapertura è stata calendarizzata dal governo a partire da oggi, 4 maggio, ma serviranno tempi più lunghi per ripartire nel rispetto delle normative) e con il rischio ulteriore che all’improvviso si annullino tutti i progressi, tutti i livelli di autonomia raggiunti con tanta fatica da questi bambini e ragazzi».
E qui Di Maolo ritorna al discorso iniziale della cura — e non solo della semplice assistenza — alle persone e delle persone. Lo fa anche per quella che è la sua esperienza di membro dell’Ufficio nazionale salute della Conferenza episcopale italiana e all’impegno nel consiglio nazionale dell’Associazione religiosa istituti socio-sanitari (Aris): «Superare questa emergenza significa anche sapersi organizzare, fare prevenzione nel migliore dei modi. Dobbiamo capire che non basta la volontà da sola, ma che serve anche recuperare un’economia buona. L’istanza che ci sentiamo di avanzare è quella di un sostegno, ma per reinvestire nelle varie attività, anche perché la “fase 2” prevede necessariamente tempi più lunghi, altri costi, la sanificazione degli ambienti dopo ogni prestazione, attenzioni diverse. E quindi sapersi organizzare meglio. Il cuore e la capacità organizzativa devono andare insieme».
Le difficoltà economiche? Le stanno incontrando anche al Serafico, come accade per tanti altri soggetti del terzo settore e del no profit. Va registrato, ad esempio, un calo nelle donazioni da parte dei privati «che non sono elemosina — conclude la presidente — ma fanno un po’ parte del nostro modello economico. Ne riceviamo tante con i classici bollettini postali, ma ora la gente non può uscire neppure per andare alle Poste. Però riceviamo tante telefonate e ci scrivono che appena potranno, il loro pensiero sarà subito per i ragazzi dell’Istituto. E questo ci conforta, ci porta a sperare che la battuta d’arresto sarà solo transitoria».
Quel vescovo solitario pellegrino
Quando la vocazione si fa “social”
I vescovi ciociari: la Messa va celebrata con il popolo
COMUNICATO DEI VESCOVI DI ANAGNI-ALATRI, FROSINONE-VEROLI-FERENTINO, SORA-CASSINO-AQUINO-PONTECORVO
Nella serata di domenica 26 aprile u.s., il Presidente del Consiglio ha reso noto il nuovo Decreto con cui viene disciplinata la cosiddetta “fase 2” dell’emergenza Coronavirus. Questo nuovo Decreto arriva a conclusione di una settimana nella quale la Presidenza e la Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana, in stretta collaborazione con la Segreteria di Stato, hanno intensificato la presentazione delle attese e delle richieste della comunità ecclesiale, al Governo italiano, con la sottolineatura esplicita che – nel momento in cui vengano ridotte le limitazioni assunte per far fronte all’emergenza sanitaria – la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale. Quanto alle celebrazioni eucaristiche, si è rappresentato come le chiese siano ampie e consentano la partecipazione di fedeli a celebrazioni che rispettino in pieno la normativa sanitaria. Al Ministero dell’Interno e alla stessa Presidenza del Consiglio sono state sottoposte bozze di Orientamenti e Protocolli, e si è ribadito che alle misure disposte dalla politica a tutela della salute, la Chiesa italiana si impegna a continuare a corrispondere in pieno, ma non può accettare che se ne comprometta la libertà di culto.
Dopo questo confronto serrato, il nuovo Decreto, nei suoi contenuti, disattende le richieste avanzate. La Conferenza Episcopale Italiana ha ritenuto necessario manifestare il disaccordo dei Vescovi in un comunicato, nel quale tra l’altro si dichiara: “Il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri varato ieri sera esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo. Alla Presidenza del Consiglio e al Comitato tecnico-scientifico si richiama il dovere di distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia. I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto”.
I Vescovi delle Diocesi Anagni-Alatri, di Frosinone-Veroli-Ferentino, e di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo, facendosi voce delle comunità ecclesiali già duramente messe alla prova dalle contingenze attuali, condividono unanimi il disappunto della CEI sulle decisioni adottate perché lesive di un diritto fondamentale dei cittadini quale la libertà di culto, e perché non rispettose della legittima autonomia della Chiesa.
Appare infatti ingiustificabile prospettare il graduale ritorno alle attività sportive, al lavoro e alle attività quotidiane quali recarsi in negozi, uffici, parchi e giardini, la ripresa degli allenamenti delle squadre di calcio (magari con le mascherine e a distanza dal pallone) ed allo stesso tempo continuare ad impedire la partecipazione dei fedeli alla Messa, secondo modalità che tutelino l’incolumità delle persone e nel pieno rispetto delle norme sanitarie.
Vorremmo ribadire anche che per noi la Santa Messa deve essere celebrata con il popolo, perché siamo comunità unita attorno al Signore Gesù, segno di un’unità più ampia. La celebrazione individuale o chiusa è solo permessa in casi particolari. E’ questa unità che crea legami e che ha permesso in questo tempo terribile del Covid-19 di esprimere tanta solidarietà verso una moltitudine di gente bisognosa. Ci si attende dunque che ci sia una seria e urgente riconsiderazione delle misure adottate e che sia reso possibile il ritorno a celebrazioni liturgiche partecipate, manifestando sin d’ora la disponibilità al rispetto delle norme sanitarie, a tutela dell’incolumità delle persone. Crediamo in questo di condividere il bisogno di ogni credente, appartenente alle diverse confessioni cristiane e religioni.
I Vescovi della Provincia di Frosinone invitano le Istituzioni civili presenti sul nostro territorio a esprimere segni concreti di condivisione del disagio e di preoccupazione per i fedeli privati di una libertà fondamentale e degli elementi costitutivi dell’identità religiosa, culturale e sociale delle comunità.
Quelle mille famiglie povere
Di storie come queste ne ho scritte tante (non è per tirarmela, ma se volete è anche per un fatto statistico, visti i 31 anni di professione e la crisi in cui siamo piombati da 10-15 anni), ma stavolta, più delle altre volte, è come un rovello: da quando, qualche giorno fa, l’amico Piergiorgio Ballini dll’Unitalsi mi ha raccontato quello che sta succedendo su un territorio tutto sommato piccolo. E’ quello che coincide con la diocesi di Anagni-Alatri, in una fetta di Ciociaria: una trentina di paesi, per lo più piccoli, una popolazione che arriva sì e no a 90mila abitanti. Però ci sono già mille famiglie povere. Una enormità. E un numero che cresce. Sono le famiglie già seguite perché indigenti, ma soprattutto quelle dei “nuovi poveri”: chi prima faceva lavoretti ma anche chi “stava bene” con un negozietto o una attività da piccolo libero professionista e che però da tre mesi non incassa un euro, non vede un soldo. E i figli da far mangiare sono sempre lì, magari anche con la tenerezza innocente di “papà, mi compri un gelato?”, e tu quei 2 euro non ce li hai. Scusate, ma a me questa cosa non mi fa dormire bene e nei sogni-incubi tornano spesso quelle mille famiglie.