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Quel presepe della nostra povertà

Da ieri non faccio altro che ripensare ad un articolo uscito sulla cronaca romana del Messaggero: in poche ma efficaci righe,  Pietro Piovani cesella la storia di un Qualcuno (la maiuscola è mia, volutamente) che ha abbandonato un presepe in una strada della Capitale. Accanto, ha messo un cartello, come a scusarsi del gesto e per un invito: “Questo presepe mi ha accompagnato a lungo nella mia vita. Ma ora non ha più spazio in questa casa (…). Spero che tu possa portarlo con te e dargli una nuova casa. Grazie se stai salvando questo vecchio presepe dall’oblio e dalla miseria in cui io stesso sono caduto. Addio”.

A quanto pare, racconta poi l’articolista, l’invito è stato raccolto e ora quel presepe riempie un’altra casa.

Ma io penso ancora a quel Qualcuno che lo ha abbandonato: un pensionato che non arriva alla fine del mese più tra medicine, nipoti da aiutare e affitto aumentato? Un padre di famiglia del fu “ceto medio” rimasto senza lavoro a 50 anni? Un giovane di belle speranze oramai sulla trentina abbondante, laurea in tasca e neanche uno straccio di lavoro? Penso che quel presepe avrebbe potuto venderlo per due spiccioli, giusto il necessario per un pezzo di pane da portare ai figli. O magari metterlo sì in strada, ma con accanto un barattolo per raccogliere delle offerte e un’altra scritta: “Mi è rimasto solo questo. Però magari con il vostro aiuto il prossimo Natale sarà anche per me di speranza”.

E non oso pensare a quelle cinque lettere finali, a comporre la parola “Addio”, che suona così tragica, forse anche nella mente di quel povero uomo. Che è stato bambino anche lui, con un papà vicino a preparare quel presepe di cartapesta. E chissà quanti Natali di serenità a guardare la capanna, i pastori, i Magi. Mai avrebbe pensato, neppure nel peggiore degli incubi, di doversi staccare da quel presepe e – Dio non voglia – dalla vita. Ma cosa siamo diventati, se Qualcuno di noi deve disfarsi perfino di un presepe?