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Goran sulla panchina

E ho voglia di raccontare un altro ricordo di Goran Kuzminac: primi anni ’80, noi ragazzini sbarbatelli che il massimo della trasgressione era giocare a ping pong anche se l’oratorio era chiuso, tanto per far arrabbiare il parroco, o provare ad andare al mare in due, senza riuscirci, su uno dei primi vesponi.

Estate di Frosinone, si bighellonava in piazza Madonna della Neve. Scuola finita, tante ore sulle panchine a far niente, a dire di tutto (e un po’ anche di tutti, ma in particolare di tutte… le nostre prime fidanzate, che neppure sapevano di essere fidanzate nostre…).

Ma una delle panchine quella mattina la troviamo occupata: c’è seduto un signore con la barba, le grandi braccia distese per tutta la lunghezza della panca, il volto un po’ estatico a godersi la brezza di provincia.  Ma sì, è proprio lui: ci avviciniamo, sornioni e un po’ spavaldi: <Scusi, ma lei non è Goran Kuzminac, il grande cantante?>. Sembra sorpreso, eppure è all’apice del successo. Ma sì, è proprio lui. Fa posto per due sulla panchina accanto a lui, noi altri intorno a fargli corona.

Prende a chiacchierare, dice che è appena sceso dall’albergo sulla piazza (non ricordo se si chiamava ancora Nikla o già York Hotel, oggi comunque non c’è più), che ha dormito bene e la sera prima mangiato ancora meglio a Frosinone. Che la sera avrebbe suonato in un paese vicino. Ci racconta della sua particolare tecnica nel suonare la chitarra (non l’aveva con sé, altrimenti di certo ci avrebbe deliziato) e altre cose ancora, come un vecchio amico.

Poi il saluto finale per tutti, ma uno ad uno, ed era tutto: avevamo diviso una delle nostre panchine della piazza – quelle ci sono sempre e ogni tanto è bello risedersi lì – con il grande Goran!

La Poesia di Lucio

Poi – a tenerci a galla – ci sono i Poeti, quelli veri. Ciao Lucio:

Aver paura d’innamorarsi troppo

non disarmarsi per non sciupare tutto

non dire niente per non tradir la mente

è un leggero dolore che però io non so più sopportare.

Non farsi vivo e non telefonare

parlar di tutto per non parlar d’amore

cercar di farsi un po’ desiderare è proprio un vero dolore

Abbandonarsi senza più timori senza fede nei falliti amori

e non studiarsi ubriacarsi di fiducia

per uscirne finalmente fuori

Juve-Napoli: non solo una partita

I miei famosi trentatré lettori ( ma soprattutto i tanti amici comuni e i tantissimi che condividono la passione per il calcio) sanno che non ho in particolare simpatia (eufemismo) la Juventus.

Stesso discorso vale per il Napoli, e qui stanno in piedi anche motivazioni personal-familiari attorno alle quali non vale la pena discettare. Pur riconoscendo che ho adorato giocatori dell’una e dell’altra (Scirea e l’immenso Baggio Roby da una parte, dall’altra Rudi Krol e il mio conterraneo Peppe Incocciati), se avessi la sfera magica del calcio, vorrei che vincessero una partita sì e 30 no.

Non metto le mano avanti, e neppure le gambe in un pericoloso tackle, per dire invece che un libricino (nella migliore accezione del termine) di recente pubblicazione mi ha un po’ ravvicinato a Juve e Napoli, anzi a <Juve-Napoli. Romanzo popolare>, come nel titolo di questo libro di Darwin Pastorin e Vincenzo Imperatore, edito da Aliberti.

Vincenzo Imperatore (della cui amicizia seppur virtuale mi onoro, e spero che questo non mi faccia velo nel parlare di codesto libro) è il tifoso napoletano, ha scritto saggi economici-finanziari soprattutto sul (pessimo) ruolo delle banche, portando anche a teatro, in un’operazione coraggiosa come poche altre, uno dei suo libri.

Darwin Pastorin, brasiliano di nascita e italo-juventino per tutto il resto, è giornalista che chi dà mostra di seguire il football non può non conoscere (qualunque figlio che non mastica di calcio, tipo il mio che pure ho cercato invano di introdurre ai piaceri della pelota, si innamorerebbe degli eroi in mutande leggendo “Lettera a mio figlio sul calcio” pubblicato qualche annetto fa da Mondadori).

Il libro è un lungo derby a distanza “giocato” sul filo della “memoria”, quel termine magico che rende ancora più bello il calcio: ecco dunque un bel campionato di ricordi – come Pastorin e Imperatore scrivono nell’introduzione non a caso intitolata “precampionato” – che rende evidente perché si diventa tifosi di una squadra. E cosa questo significa nei secoli dei secoli.

A me in particolare sono piaciuti i capitoletti “vivere lo stadio”. Un po’ perché io sono cresciuto a pane e Matusa (il vecchio, in tutti sensi, stadio di Frosinone) e ora mi coccolo il bellissimo “Benito Stirpe”. Un po’ perché da mia nonna sentivo raccontare e mi affascinavano le storie di mio nonno maresciallo, che non ho mai conosciuto, che prestava servizio nella zona del vecchio stadio del Vomero e di come ogni mattina si alzassero spalancando le finestre proprio su quel prato di calciatori.

E se di calcio non capite un accidenti – cosa che in realtà spesso accade anche a chi di calcio afferma di capire –  niente paura: questo libro è uno spaccato anche su tutto il resto che è poi la Vita (e dunque ancora il Calcio, ma qui il discorso si farebbe lungo…) e che due penne così sanno dipingere come un acquerello. Con 14 euro, insomma, vi portate a casa calcio e dintorni, senza pentirvene.

Silenzio: parla (e scrive) l’Islanda

Le penne islandesi hanno sempre ragione: prendiamo “Hotel Silence”, l’ultimo libro – almeno tra quelli pubblicati in Italia – di Audur Ava Olafsdottir, docente universitaria sessantenne, ritenuta la più grande scrittrice islandese vivente (se andiamo a comprendere anche i maschietti, però, Helgason Hallgrimur credo sia una spanna sopra).

Questo romanzo – che si può leggere anche come una serie di deliziosi racconti uno dietro l’altro – è la storia di Jonas, 49enne (che bella anche questa scelta di fermarsi alla soglia del mezzo secolo di età) che decide di andare lontano, in un posto dove c’è stata la guerra – e quale sia quel posto la scrittrice non lo dice mai – per fare la pace, soprattutto con sé stesso. In realtà, Jonas è laggiù che vorrebbe trovare la morte, lontano dalla ex moglie, da una figlia che ama più di ogni altra cosa anche se ha scoperto che non è sua figlia naturale, da una madre un po’ ingombrante come le sue parole e tesi svampite. Ma la morte non la trova (non riesce a darsela) dopo che ha conosciuto gli strani e intensi personaggi dell’Hotel Silence: poche camere d’albergo messe su alla meglio dopo che la guerra è finita e dove Jonas si ritrova insieme ai due giovani gestori e ai primi altri due turisti, in verità una attrice di fama che vorrebbe realizzare un documentario sul post guerra e un predone di opere d’arte. Jonas nella sua piccola valigia riempita in Islanda mette dentro anche un trapano e qualche rotolo di nastro adesivo. Sono i due elementi indispensabili per iniziare lì una ricostruzione (le tubature dell’hotel, le porte di un piccolo ristorante dove è l’unico avventore, le camere di una casa dove alcune donne violate dai soldati hanno deciso di andare a vivere assieme): dalla ricostruzione materiale di piccoli grandi cose, alla ricostruzione di sé stesso, ma anche della giovane che gestisce l’hotel e di suo figlio piccolo. Sono pagine di una tenerezza unica, di una scrittura indissolubilmente legata alle atmosfere d’Islanda, anche a migliaia di km di distanza da una nazione che non ha neppure un esercito. Molto contribuisce alla buona lettura l’ottima traduzione di Stefano Rosatti e merito anche alla Einaudi che continua a pubblicare tutti i libri della Olafsdottir.

Pagine che profumano di una religiosità intensa, una sorta di bisogno disperato di Dio, di un Cielo meno cupo. Come peraltro già accadeva  ne<Il rosso vivo del rabarbaro>, il libro della scrittrice islandese precedente a questo. Lì c’è Nina che non vuole sprecare le parole: <Quante particelle grammaticali ha adoperato Gesù Cristo per salvare il mondo? Pochissime>. Lì, in quelle stesse pagine, c’è l’essenzialità della terra d’Islanda: <Lo so che vorresti poter correre – dice la protagonista a una bambina che non può farlo per un handicap fisico – ma, guarda, c’è pieno così di gente che corre tutta la vita e non arriva mai da nessuna parte>.

Ecco, quella d’Islanda è una religiosità “familiare”, in una terra per niente facile, dove anche il Cristianesimo ha attecchito poco (qualche mese fa ne ho scritto sul settimanale “Credere”, intervistando i padri di una delle poche comunità religiose cattoliche presenti in Islanda). E dove le parole davvero restano scolpite come pietre. Grazie anche a libri come questo.

Ps: poi c’è l’Islanda delle mille atmosfere che si può scoprire grazie a scrittori italiani e libri meritevoli. Suggerisco “Siamo state a Kirkjubæjarklaustu, di Valeria Viganò (Neri Pozza), “Tutta la solitudine che meritate” di Claudio Giunta e Giovanna Silva (Quodlibet) e “Ghiaccio fuoco” di Nicola Lecca e Laura Pariani (Marsilio).

L’eskimo dell’insopportabile Moravia

Facevo le scuole medie: questo lo ricordo bene, perché le lunghe stagioni estive di allora, quando poi la scuola ricominciava al primo di ottobre, le trascorrevo nella grande casa e nella grandissima pace di nonna Maria, a Ceprano.

Dunque, a 11 o 12 o 13 anni, in una di quelle estati insomma, mi fece compagnia <Arcipelago Gulag>, il libro di Aleksandr Solgenitsin. Leggevo e rileggevo quelle pagine d’epoca e epocali (in un’altra di quelle estati adolescenziali, invece, mi accompagnai all’archeologia de <Il tesoro greco> ed entrambi questi libri devo ancora averli da qualche parte) e mio padre un po’ era contento per quella scelta, ma un po’ anche preoccupato per la mancata preferenza a libri più adatti all’età (Salgari in effetti l’ho scoperto poco dopo).

Eppure, a ripensarci adesso, era già la mia età: su quella seggiola davanti alla campagna ciociara un po’ sterminata e un po’ puntellata da una cartiera e dalla striscia d’asfalto dell’autostrada, contrassi i germi dell’anticomunismo.

La riprova l’ho avuta nello scorso fine settimana, leggendo un lungo articolo di Giulio Meotti su Il Foglio, dedicato per l’appunto a Solgenitsin.

Tra le tante cose sottolineate da Meotti, due su tutte: un rimando al grande giornalista Enzo Bettiza che rimarcava come “le Brigate Rosse uccidevano nel nome del comunismo” (tremenda verità che ancora oggi in tanti cercano di confutare, soprattutto quelli che continuano ad indossare l’eskimo in redazione, secondo il titolo del bel libro di Michele Brambilla).

La seconda (ri)scoperta che devo a Meotti: lo scrittore russo stava sulle scatole ad Alberto Moravia. Lo stesso Moravia che in questi primi 54 anni di vita non sono riuscito a digerire neanche un po’. Tutto torna, insomma.