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La santità giovane

Questo è il mio articolo pubblicato sull’Osservatore Romano il 4 novembre.

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Una “notte dei santi bambini” per indicare a tanti giovani la santità dei coetanei Daudi Okelo e Jildo Irwa, catechisti morti lo scorso anno in Uganda poco dopo aver ricevuto il battesimo, del venerabile Carlo Acutis e del beato Rolando Rivi. Santi bambini e “uomini veri”, secondo il titolo dell’incontro tenutosi per la festa di Ognissanti a San Valentino, in diocesi di Reggio Emilia – Guastalla, in quella pieve così strettamente legata proprio alla figura del beato Rivi.

Rolando Rivi aveva appena 14 anni quando venne percosso, seviziato e finito con un colpo di pistola dopo tre giorni di torture, quindi lasciato in un bosco delle campagne emiliane, con indosso la sola maglia di lana, strappata e insanguinata. La sua unica “colpa”, agli occhi degli aguzzini partigiani in quel periodo dell’aprile del 1945 segnato da troppi odi e divisioni, fu quella di continuare a indossare la tonaca da seminarista: non volle abbandonarla neppure dopo la chiusura del collegio dove studiava, decisa proprio per le ambasce della guerra, e il ritorno nella povera casa dei genitori contadini, a Castellarano. Ma la fama di mitezza di quel ragazzino percorse ben presto tutte le vallate circostanti. E si fece subito fama di santità, così legata proprio al suo essere “seminarista ragazzino”, innamorato di quella tonaca (che presto avrebbe desiderato sostituire con quella da curato di campagna del suo adorato parroco) anche quando i suoi aguzzini la dileggiarono facendone una palla da calcio.

Rolando nel frattempo è diventato il beato Rivi, in virtù di una serie di guarigioni miracolose ottenute per la sua intercessione, con Papa Francesco che nel marzo del 2013 (tra i primi atti del suo ministero petrino) ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto per il riconoscimento del martirio in odium fidei. Un martirio che poi s’è tramutato in un bagno di pacificazione, quando — nell’aprile 2018 — la figlia di colui che uccise materialmente Rolando ha chiesto pubblicamente perdono alla sorella e agli altri congiunti del beato ancora in vita.

Martirio, pacificazione e perdono che oggi costituiscono una calamita per migliaia di giovani, diretti nella chiesa di San Valentino dove Rolando è sepolto, nel frattempo eretta a santuario diocesano, e che vivono il pellegrinaggio all’insegna della grazia, della conversione e dell’amicizia.

«Vengono anche dall’estero — racconta Emilio Bonicelli, scrittore e portavoce del Comitato amici di Rolando Rivi — per una fama che non conosce confini. Di recente, un seminarista del Brasile ha portato qui anche i suoi familiari, tutti poveri contadini che hanno faticato non poco per racimolare i soldi del viaggio, dopo aver sentito parlare del beato Rolando. E una famiglia intera è pure arrivata dal Brasile, per un desiderio coltivato da tempo dopo la grazia a una giovane, oggi sposata e famosa architetto, guarita dalla leucemia per intercessione di Rivi dopo aver ricevuto in dono chissà come una reliquia di Rolando, quando ancora non era stato proclamato beato».

E poi, giovani dall’Emilia Romagna e da tutta Italia: a centinaia per il pellegrinaggio di settembre, da San Valentino a Marola, dove si trovava il seminario di Rolando ora trasformato in un centro di spiritualità: due giorni e due notti di cammino, in preghiera e silenzio, soprattutto davanti a quella maglietta, ora custodita in chiesa, ancora intrisa del sangue del martirio. E ancora a migliaia, il 5 ottobre scorso, nel duomo di Modena per il sesto anniversario della beatificazione.

Per il 2020, invece, nel 75° del martirio, il Comitato degli amici di Rolando Rivi intende suggellare il sentiero dedicato al beato con un’altra grande iniziativa, così anticipata a «L’Osservatore Romano»: 32 chilometri completamente immersi nella natura, un vero e proprio cammino vocazionale e spirituale, saranno tutti nel segno della Laudato si’ di Papa Francesco. «Non solo i segnali stradali — precisa Bonicelli — ma anche tutte le tappe del sentiero saranno contrassegnate da targhe e cartelli con brevi estratti dell’enciclica, perché i giovani, accompagnati dall’esempio di Rolando che tanto amava questa natura, possano comprendere e contemplare la bellezza del creato, proprio come indicato dal Pontefice».

E per chi arriva al santuario del beato Rivi, in un paesaggio ancora incontaminato, adesso c’è anche la possibilità di una assistenza spirituale continua, visto l’affidamento del luogo sacro alla Fraternità sacerdotale dei missionari di san Carlo Borromeo.

Missionari, sempre

(editoriale di ottobre del mensile diocesano “Anagni-Alatri Uno”)


E’ un tempo tutto da vivere quello di ottobre, mese delle missioni. E non a caso papa Francesco lo ha voluto “tempo straordinario di missionarietà”, dando questo titolo, che è tutto un programma, al suo messaggio: “Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo”. Le parole del pontefice andrebbero scolpite, soprattutto nei cuori di quanti ritengono che le missioni siano “una cosa d’altri tempi”. E invece, scrive il Papa, <celebrare questo mese ci aiuterà in primo luogo a ritrovare il senso missionario della nostra adesione di fede a Gesù Cristo. La nostra appartenenza filiale a Dio non è mai un atto individuale ma sempre ecclesiale (…). Una Chiesa in uscita fino agli estremi confini richiede conversione missionaria costante e permanente. Quanti santi, quante donne e uomini di fede ci testimoniano, ci mostrano possibile e praticabile questa apertura illimitata, questa uscita misericordiosa come spinta urgente dell’amore e della sua logica intrinseca di dono, di sacrificio e di gratuità. È un mandato che ci tocca da vicino: io sono sempre una missione; tu sei sempre una missione; ogni battezzata e battezzato è una missione. Chi ama si mette in movimento, è spinto fuori da sé stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita. Ciascuno di noi è una missione nel mondo perché frutto dell’amore di Dio>.

Come Chiesa locale abbiamo il dono di una missionarietà che davvero si mette in movimento e, all’interno di questo giornale, vi proponiamo le storie dei nostri due “fidei donum”, un sacerdote e una laica consacrata. Tante altre sono poi le tracce missionarie che troviamo nelle famiglie religiose sia maschili che femminili, negli esempi di generosità del volontariato laico, nelle adozioni a distanza da parte di molte famiglie, in comunità parrocchiali che sostengono progetti e missionari nel cosiddetto “terzo mondo”. Uno slancio che adesso va però alimentato anche nei giovani, perché ritrovi un po’ di freschezza. D’altro canto, i giovani sono capaci di raccogliere l’invito del Papa: <Chi ama si mette in movimento>. Quei giovani cui il nostro vescovo Lorenzo continua a dedicare un impegno pastorale senza risparmio e che abbiamo di nuovo focalizzato (anche di questo parliamo nel giornale che avete in mano) nell’ultimo convegno diocesano di Fiuggi. Con l’invito a camminare, a metterci in movimento con loro.

(nella foto, alcune bambine della Tanzania ricordano i 50 anni dell’arrivo, su una nave, delle prime suore missionarie delle Adoratrici del Sangue di Cristo)

Quel Tempo dei giornali divorati

Non vedevo l’ora che papà si alzasse dalla poltrona del salotto, non tanto per appropriarmi di quello spazio – preferivo le meno prosaiche ma più appartate scale condominiali che portavano al grande terrazzo che sovrastava i tetti degli altri edifici e che noi bambini avevamo eletto a torre di guardia per guerre mai combattute ma sempre vinte  – quanto piuttosto perché quello era il segnale giusto: aveva finito di leggere il giornale, quindi… toccava a me! Ed eccoli, gli immensi fogli de “Il Tempo”, non più intonsi, ma neppure troppo sgualciti, che iniziavo a divorare dalla prima all’ultima pagina, dal primo all’ultimo articolo, senza perderne neppure uno, anche se certi argomenti erano per me astrusi. Era quello il giornale che allora – a conti fatti, siamo a 45 anni fa – entrava in casa. E che ho letto anche io per tanti anni dopo. Allora non ne conoscevo “l’orientamento politico” e neppure mi interessava: mi bastavano (anche se in realtà non mi bastavano mai) gli articoli di cronaca, la terza pagina, gli spettacoli e lo sport, la rubrica del “disco rosso”, il “Così, semplicemente” di padre Rotondi, le recensioni di Rondi, gli editoriali di Gianni Letta (a proposito, qualche giorno fa l’ho incontrato a L’Aquila, l’ho ringraziato per quel periodo e quel giornale e l’ho visto perfino un po’ commosso nel ringraziare lui a me).

Nelle lunghe estati nella casa di campagna di nonna Maria, dietro la cantina era il luogo ideale per nascondermi, con “Il Tempo” (nonna si sobbarcava lunghi tragitti a piedi fino al paese, per la spesa di ogni giorno ma anche per prendere il giornale a quel nipote che rompeva la solitudine di vedova troppo giovane e la faceva ridere con i suoi scherzi) e un manico di scopa: quello era il microfono, e io ero l’inviato di un tg mentre leggevo le cronache del giornale da Paesi lontani.  Forse è lì e allora che ho desiderato fare il giornalista da grande; sicuramente è su quelle pagine che ho imparato i primi ma essenziali rudimenti della professione.

Poi gli anni sono passati. Ed è cambiato “Il Tempo” e sono cambiato anch’io, con i miei gusti editoriali, insieme al mondo dei giornali. Non faccio difficoltà ad ammettere che per un lungo periodo quel giornale non l’ho più riconosciuto, e quindi letto ancora di meno. Ma, al… tempo stesso, mi sono di nuovo un po’ emozionato – ed ecco perché scrivo queste misere righe di ricordi – quando stamane ho appreso delle novità grafiche del Tempo: un giornale che si rifà il vestito, che ne indossa uno nuovo, è perché vuole (ri)uscire tra la gente e fare bella figura.

La copia di oggi ce l’ho qui accanto, la sto compulsando da stamane, e “il nuovo” già si vede, si legge.

E, per quello che conta, faccio i migliori auguri al direttore Franco Bechis (nessuna captatio benevolentiae: ci saremmo visti sì e no un paio di volte e di certo neppure si ricorderà di me) perché questo nuovo vestito possa attrarre tanti lettori… Proprio come quel papà sprofondato nella sua poltrona e quel bambino col manico di scopa come un microfono.