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Camminando con Polito, perché un paese ci vuole

Da Norcia a Montecassino, sulle orme di Benedetto. E’ il tragitto compiuto da Antonio Polito, vice direttore del Corriere della Sera, narrato – e non solo raccontato – nel bellissimo “Le regole del cammino. In viaggio verso il tempo che ci attende”, edito da Marsilio. Il viaggio di Polito e di alcuni suoi amici non è solo materiale, fatto di fatica, discese e ascese. E neppure solo spirituale, anche se ogni pietra parla di Benedetto. Questo viaggio così raccontato è introspettivo, nella migliore accezione del termine: è il cammino che ognuno di noi dovrebbe fare, per scoprire e scoprirsi (forse anche un po’ migliori).

E’ un viaggio dentro i paradossi del nostro tempo, laddove la frugalità, ad esempio, la scambiamo per una dieta. O dove il giusto rispetto per l’ambiente viene barattato con quello che Polito chiama <fondamentalismo da khmer rossi>. Le pagine di questo libro ci portano anche nei paesi e nei luoghi che sappiamo nostri, ma che magari non conosciamo (e neppure riconosciamo) abbastanza: Trevi nel Lazio, Trisulti, Casamari, Veroli, fino al borgo natale della famiglia, ai piedi di Montecassino, che l’Autore frequentò da bambino.

<Fermarsi nei paesi, soprattutto in quelli più piccoli, suscita immancabilmente in me una specie di nostalgia all’incontrario: accende il desiderio, quasi struggente, di un’altra vita che non ho mai avuto (…)Di sicuro mi dà gioia fermarmi. Anzi, direi quasi che cammino per poterlo fare>, scrive Polito in uno dei capitoli più belli, introdotto da una frase di Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”.

(Questo articolo è stato pubblicato nel numero di maggio di “Anagni-Alatri Uno”, mensile della diocesi di Anagni-Alatri)

Quando i giornali erano giornaloni

Su Avvenire di oggi, nella sua rubrica del sabato, Gianni Gennari ricorda padre Virginio Rotondi: per me un tuffo al cuore di una quarantina d’anni, quando i giornali erano giornaloni. In tutti i sensi erano giornaloni: per i contenuti (lì trovavi tutto, mica esisteva internet, e anche rispetto ai tg, limitati a pochi canali), per il formato. Già, erano grandi, enormi, quando li dispiegavi, non bastava il divano buono di casa o il tavolo della cucina. E amavo perdermi in quelle pagine. Allora – 40-45 anni fa – a casa entrava Il Tempo: lo leggeva papà, ma poi lo ritrovavo anche nelle lunghe estati a casa degli zii a Ceprano. Era un giornalone, davvero, anche e soprattutto per le firme. E io correvo a leggere – mi pare fosse a pagina 2 – la rubrica di padre Rotondi, “Così, semplicemente”. Un giorno, presa carta e penna, gli scrissi anche. Tanti anni dopo, ci incontrammo per caso, gli dissi di quella lettera e lui si ricordava bene di quel ragazzino che aveva scritto a mano; l’aveva anche messa in pagina, ma poi il giornale non uscì per uno sciopero; la lettera, mi disse, era piaciuta anche al direttore di allora – per me l’altrettanto mitico Gianni Letta – ma poi non riuscirono a pubblicarla perché presi da altre urgenze. Ma sono rimasto sempre grato a padre Rotondi per quell’attenzione. E a quei giornaloni, d’altri tempi, ma di un tempo per crescere.

L’amore vince sempre: l’esempio di suor Maria Laura

Domenica prossima 6 giugno verrà beatificata suor Maria Laura Mainetti, uccisa da tre ragazze al termine di un rito satanico. Sul settimanale “Maria con te” racconto la sua storia e la particolare affezione mariana, con le testimonianze di una sua consorella-amica e della postulatrice della causa di beatificazione, Francesca Consolini.

Il bello della Fede (quei sacerdoti morti per il Covid)

Questo è il mio editoriale per l’ultimo numero del mensile diocesano “Anagni-Alatri Uno” che ho il privilegio di dirigere:
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La triste contabilità dei preti, dei religiosi e delle suore morte per Covid si fa sempre più drammatica: 500 solo in Italia, decine di migliaia in tutto il mondo. Tanti “uomini di Dio” che, proprio come i monaci francesi massacrati dal terrorismo islamista in Algeria, mai si sono fermati pur sapendo a cosa probabilmente andavano incontro: un virus invisibile ma letale o le armi spianate.
E’ il bello della Fede, anche se può sembrare azzardato accostare bellezza e morte: ma è quella bellezza che si fa “ricchezza”, praticata da chi decide di non avere più niente per avere tutto.
Anche come Chiesa locale abbiamo pagato un tributo già alto: padre Maurizio Di Girolamo, nel novembre scorso, don Luigi Verdecchia un mese fa. Due splendide figure di religiosi che non indossavano solo l’abito dei Cappuccini e dei Salesiani, ma soprattutto quello della carità.
Tutto ad Alatri parla dell’opera caritativa di padre Maurizio, del suo Banco alimentare per aiutare tante persone. E per tutti era una figura di riferimento, come ci hanno riferito anche alcuni “lontani”, ovvero persone senza il dono della Fede e che hanno in uggia la Chiesa, ma che ammiravano quel frate umile (anche se di cultura vasta, di cui però non faceva sfoggio) e il lui trovavano sempre un aiuto.
Don Verdecchia mezzo secolo fa aveva lasciato la sua Guarcino (pur mantenendo un legame fortissimo con la sua terra d’origine) per farsi povero tra i più poveri della periferia di Caracas, in quel Venezuela che ora sta conoscendo una crisi senza fine, non determinata solo dal Covid. Ma don Luigi c’è sempre stato, anche quando le mascherine non si trovavano o il governo consigliava di lavarsi per bene le mani, ma loro neppure l’acqua avevano. Era partito giovane per una terra di missione “Luigino”, come lo chiamavano a Guarcino quando tra bambini si litigava per ottenere il privilegio di “servire la Messa” dell’alba. Altri tempi: allora i ragazzi bisticciavano per fare da chierichetto, oggi si accoltellano per noia. Ecco, magari a questi ultimi servirebbero proprio gli esempi di padre Maurizio e di Luigino, anche se qualche bel segnale di speranza arriva. Prendiamo ad esempio i nostri ragazzi della pastorale giovanile e vocazionale: stanno portando avanti un lavoro straordinario di riflessione sui temi della vita, mostrando una maturità che va oltre i 20-25 anni. Anche per questo ogni mese dedichiamo loro degli spazi appositi e mai ci stancheremo di sottolineare l’opera meritoria che il vescovo Lorenzo Loppa continua a portare avanti mettendo l’Educazione (la maiuscola è voluta…) al centro dell’azione pastorale.

Uomo di varietà. E di varie età

Claudio Baglioni ha presentato l’opera-concerto “In questa storia che è la mia”, uno spettacolo senza precedenti, con 188 artisti. Una ripartenza vera per la musica che si fonde con il teatro, la danza, il cinema, arti e mestieri vari. Perché <un artista deve essere anche un artefice, far accadere qualcosa>. E Baglioni in questo show fa accadere tanto, praticamente tutta una vita da artista di varietà. E di varie età. Qui il link per leggere il mio articolo su www.avvenire.it

https://www.avvenire.it/agora/pagine/claudioclaudio