(come un autoritratto, all’isola che si specchia nell’isola)
Dell’ironia
ho fatto la vita mia,
viaggiatore folle
delle parole altrui.
Ricordo i bambini d’India:
non avevano sogni,
non avevano da mangiare.
Assieme a loro
Ho mangiato sogni
Duri da digerire
Nella pancia piena
Di una strana follia:
al dente, ben cotta, col ragù.
In bianco, rosolata, fritta e dorata,
un filo d’olio appena mi raccomando,
lo vorrei basso questo pane, anzi alto,
con poca crosta, tanta mollica:
ecco le vostre follie
da discount dell’abbondanza.
Poi c’era mia nonna
E la sua lucida follia
Del sabato mattina
Al mercato di Ceprano,
un carrello sempre troppo pieno
da tirare, e tirare a campare
una vita lunga di passioni.
Il giorno dopo, le campane
di una Messa lunga una vita.
Poi è arrivato mio figlio:
una notte ha chiamato sotto voce
dalla stanza di macchinette
e mostri per gioco,
ha chiesto permesso per addormentarsi
tra i guanciali di famiglia:
<voglio stare con voi
perché ho fatto un brutto sogno>.
Lo svegliavo
e nel mondo non c’era più
neppure un briciolo di follia.
Per il resto,
resta poco da dire:
mi chiamano giornalista,
penna d’oro, pennivendolo,
scansafatiche.
Ma che dite?:
sono solo il folle di prima.
E viaggio a folle
Per sentire il vento in faccia
e fare pernacchie alla gente.
Che poi il vento
mi rimanda in faccia.