Il treno di Lecca sui binari (e le acrobazie) della vita

Non è un libro di viaggi, fermo restando che non ho nulla contro questa categoria editoriale, anzi… Eppure “Il treno di cristallo” di Nicola Lecca (Mondadori, euro 18)  ti trasporta davvero in città e Paesi come pochi altri libri di narrativa contemporanea. Ma d’altro canto, Nicola Lecca in questo è maestro: scrittore girovago, anche qui nella migliore accezione del termine, quando prende a narrare di luoghi (e dei luoghi nei luoghi) non ha chi riesca a tenergli testa letteraria, come nel “Ghiacciofuoco” di una dozzina d’anni fa, dove duettava con Laura Pariani: lei in Argentina e lui nella mitica Islanda (circostanza che mi ha fatto avvicinare in maniera definitiva a questo scrittore sardo, innamorato come sono di quella Iceland che mi picco di conoscere benone pur non essendoci mai stato).

Ma veniamo a quest’ultimo libro, che arriva a tre anni di distanza da “I colori dopo il bianco” e a sette da “La piramide del caffè”, autentico bijoux narrativo. Ne “Il treno di cristallo” la storia è quella di Aaron, ragazzo che vive con la giovane e depressa mamma in un paesino della costa inglese. E qui Lecca tratteggia tutto alla perfezione: il nostro protagonista, garzone alla gelateria Morelli; l’amico Gennarino, scugnizzo trapiantato oltre Manica; quella mamma distrutta da una vita che le è passata sopra – o forse solo accanto –  troppo in fretta; Crystal, l’amata di Aaron (amore impossibile, lo scoprirete solo leggendo, ma non per questo vano né vanificato). Un bel giorno, Aaron riceve una lettera da Zagabria : è morto quel padre che non ha mai conosciuto (ed è soprattutto questo il segreto che ha consumato la mamma). Ma laggiù in Croazia c’è un testamento che lo aspetta e Aaron dovrà andare lì su un treno, con tanto di biglietto Interrail, anche questo volontà testamentaria del padre.

Dalle ultime avvisaglie paesaggistiche dell’Inghilterra che già si protende verso la Francia a una “cattiva” Amburgo, da una Praga <che interferisce con la bussola dell’anima> passando per Lubiana, Bratislava e una impronunciabile Szentgotthard, il treno di Lecca ci fa scorrere dal finestrino e dalle fermate tutto un mondo. Che diventa quello di Aaron, tappa dopo tappa; che magari era quello di suo padre, ma che di certo diventa il mondo del lettore, nel frattempo cullato da queste 250 pagine.

Sarebbe bastato, e l’Autore lo dice, comprare un altro biglietto di prima classe perché tutto prendesse un’altra poega: sbagliare treno, insomma, per “sbagliare” la vita. E invece Aaron e la storia di Lecca procedono speditamente sui binari di un treno sì di cristallo, ma anche un po’ d’acciaio, verso un finale tutto da scoprire, con le ultime pagine che volano via. Ma restano i passaggi intermedi (le tappe per l’appunto), quelli più belli e veri del libro.

Come l’incontro – e siamo sempre a Praga – di poche ma intense righe, con un frate domenicano, che gli parla di una città che non è più magica: <Era un luogo dell’essere. Oggi è diventata il regno dell’avere. Con gli occhi, Aaron domanda perché: e il domenicano aggiunge che nessuno più ha voglia di riflettere e di creare. Tutti, invece, desiderano compare e possedere>. Un’altra figura religiosa – e magari non è un caso – farà scoprire ad Aaron altri scompartimenti di questo treno un po’ folle, e spesso mandato magicamente a folle, che è la vita: una giovane suora, al confine con la Slovacchia prima di arrivare a Bratislava, che se non altro lo ascolta e lo invita a fare quello che poi il ragazzo in effetti cercherà di fare: <Chi non si esercita nelle acrobazie della vita, chi non cade, non potrà mai diventare un campione>.

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